Con un po’ di fortuna, e almeno per il momento, l’Italia sta giungendo al termine della stagione più tormentata per le sue banche dagli anni ‘30. Il Paese emerge solo ora dal dissesto di uno dei grandi istituti storici, il Monte dei Paschi, da una miriade di crisi minori e dal fallimento a vario titolo di sei aziende di credito di media dimensioni: Veneto Banca, la Popolare di Vicenza di Gianni Zonin, oltre a Banca Etruria, Marche e due minori fra quelle messe in «risoluzione» nel novembre del 2015.
È il momento di voltarsi a guardare indietro il guado dal quale si sta uscendo e Sergio Rizzo, vicedirettore di Repubblica dopo anni come firma al «Corriere», lo fa. Il suo libro («Il pacco. Indagine sul grande imbroglio delle banche italiane», Feltrinelli) ha il merito non solo della scelta di tempo, ma soprattutto quello di essere il primo esame volto a ricordare e capire ciò che è accaduto: non a segnare punti politici o permettere regolamenti di conti, come troppe volte si è visto durante la commissione parlamentare d’inchiesta dei mesi scorsi.
Quella di Rizzo è la puntigliosa e dettagliata ricostruzione del grande cronista su alcuni dei grandi scandali finanziari di questi anni: il caso Montepaschi, che affonda le radici nella scriteriata acquisizione di Antonveneta alla fine del 2007; quello dei principali due istituti popolari veneti, per i quali solo dopo un bel po’ di tempo e di esitazioni le autorità si sono mosse perché i responsabili pagassero; e infine, fra gli altri, quelli di Banca Etruria, Banca Marche a lungo guidata da Massimo Bianconi e CariChieti, dove le baruffe di provincia hanno presto ceduto il passo al clientelismo sulla pelle dei risparmiatori.
L’autore però non rinuncia a alzare lo sguardo e cerca di capire le radici comuni di una stagione ricca di disastri. «La verità? — scrive —. Il pasticcio aretino altro non è che l’effetto di un virus purtroppo ben presente nel sistema bancario italiano: la sete di potere, che unita a una scadente qualità della classe dirigente delle banche (tutte) diventa l’innesco di una miscela esplosiva. Una modestia — accusa Sergio Rizzo — che rappresenta il vero tallone d’Achille di chi riveste ruoli nettamente al di sopra delle proprie capacità e immagina che guidare una grande azienda o una banca sia soprattutto una questione di relazioni».
Qui il giornalista lascia spazio al critico del costume sociale italiano. L’abitudine di puntare tutto sulle relazioni — scrive – è un «equivoco» che «fa sempre passare in secondo piano l’interesse dell’azienda a vantaggio delle faccende personali, impedisce l’affermarsi del merito nel ricambio del capitale umano e di conseguenza incentiva il progressivo degrado professionale».
Non potrebbe essere detto con più efficacia. A ben vedere, la rilettura delle crisi bancarie di Rizzo è in primo luogo un pezzo di storia del conformismo italiano e dei suoi costi di lungo periodo: come quando nessuno osa eccepire sulle scelte di Giuseppe Mussari a Mps, pur essendo chiaro che avrebbero portato al disastro. Si scrive di banche ma si parla di Italia e degli aspetti deteriori della sua cultura. Per questo guardare al passato prossimo aiuta sempre a capire, e magari migliorare, anche il futuro .