Aumentare il grado di internazionalità, aumentare il segmento di filiera, separare i ruoli nella governance. Giovanni Costa – siede nel Cda di Intesa Sanpaolo ed è docente all’Università di Padova – è stato uno dei protagonisti del Festival di Thiene Make in Italy sabato 9 giugno nell’ambito dell’evento “Le filiere dei champions, i champions in filiera”, e in questa intervista guarda oltre disegnando nuove sfide per la crescita delle imprese.
Prof. Costa, come valuta l’esperienza e la forza della filiera?
Senza dubbio in modo positivo. Emergono realtà che sono riuscite a ritagliarsi un ruolo diventando aziende-regista, focali, leader in grado di sviluppare una strategia di filiera. Ma non basta più la semplice esportazione, bisogna cominciare a ragionare per una multi-localizzazione delle attività produttive.
Si spieghi.
Vuol dire sviluppare una strategia di internazionalizzazione essendo in grado di gestire un pezzo di filiera anche al di fuori dei confini nazionali.
Ma le imprese ne hanno proprio bisogno se, come evidenzia il libro di Filiberto Zovico sulle aziende “champion”, corrono già così veloci?
Il problema riguarda la sostenibilità del loro percorso di crescita: ci sono imprese con grandi potenzialità ma si tratta di capire se hanno la governance e gli strumenti finanziari idonei per sostenere la crescita all’interno di una filiera che deve diventare internazionale.
Non si rischia così di negare un modello che sta facendo del made in Italy e dell’economia di prossimità una carta vincente?
Per continuare a crescere e non dipendere da un solo ambito territoriale bisogna avere la capacità di mantenere la forza delle origini estendendo la filiera. Ad esempio incorporare la distribuzione, cioè la prossimità con il cliente finale dove si incassa la maggior parte del valore creato. E non si tratta di negare la forza di un modello, ma di estenderlo.
Può portare degli esempi?
Se si vogliono aggredire determinati mercati diventa necessario avere una capacità produttiva in quei Paesi ed essere vicini ai clienti. La Zordan, azienda vicentina localissima, ha comprato un’azienda in Usa. Sempre in Usa Rana ha raddoppiato lo stabilimento dei tortellini. Un altro esempio è la Sirmax che produce plastiche per automotive, anch’essa ha aperto negli Usa. Questo non significa rinnegare le origini, ma significa in questo caso che l’automotive è una filiera internazionale e se si vuole giocare un ruolo in quel settore bisogna avere uno stabilimento negli Usa, magari uno nell’est Europa e una joint venture in India.
Ritiene che il reshoring sia tramontato?
Se vogliamo chiuderci e tornare ai dazi come Trump ben venga. Diverso invece se pensiamo allo sviluppo. Ne è testimone un altro esempio che viene dalla Garmont, produttrice di scarponi nel distretto di Montebelluna: era un’azienda in crisi ed è stata rilevata da un imprenditore che, con l’aiuto di un fondo americano, ha aperto uno stabilimento negli Usa, trampolino per diventare fornitore di scarpe tecniche per l’esercito degli Stati Uniti.
Le imprese “champion”, che hanno addirittura cassa disponibile, confessano di essere un po’ “allergiche” alle banche. Allora come si cresce?
Se si contiene il potenziale di sviluppo alla capacità di auto-finanziamento non si fanno passi lunghi. Per impostare progetti di crescita di medio periodo servono da una parte partner finanziari e dall’altra una governance in cui siano separati il ruolo di azionista e di chi gestisce.
Diverse imprese vicentine stanno entrando nel programma Elite di Borsa italiana, ma poi non si quotano. Come spiega questa ritrosia?
Ad Elite si dovrebbe intitolare un monumento non tanto per le imprese che ha portato in Borsa ma per le aziende a cui ha cambiato la mentalità sulla gestione dell’azienda.
I dati economici, pur con un rallentamento nel primo trimestre 2018, continuano ad essere positivi. Come è stato possibile in questo territorio nonostante il crollo delle ex Popolari?
Abbiamo imprenditori eccezionali che, sia davanti alla crisi innescata da Lehman Brothers e nonostante il crollo delle Popolari, non si sono messi a piangere e hanno aggiornato il loro modello di business. Il rallentamento del primo trimestre non rappresenta una crisi ma è dovuto ai problemi europei perché, se guardiamo al dato del Pil mondiale, esso è ancora eccezionale. Quindi a maggiore ragione, se non si vuole dipendere dalle contingenze europee, è necessario spostarsi su altri mercati e avere la capacità, pur valorizzando la filiera, di collocarsi in queste filiere estese mondiali che riescono a far fronte ai vari rallentamenti e alle crisi.
*Il Giornale di Vicenza, 8 giugno 2018