«Il rischio c’è sempre, nessuno può sapere cosa uscirà da questo voto…».La grande paura che ha tenuto svegli i fedelissimi di Luigi Di Maio è chiusa nelle parole dell’onorevole Emilio Carelli, uno dei tanti parlamentari che non hanno apprezzato la delega alla Rete: «È un atto di coraggio, ma la piattaforma Rousseau se la potevano evitare». Al giorno del verdetto, affidato al «sacro blog» della Casaleggio Associati, il capo politico arriva debole come mai prima, alla guida di un Movimento dilaniato. Garantisti contro giustizialisti. Governisti pro-Salvini contro ortodossi vicini a Roberto Fico. Uno scontro interno che mette a rischio la tenuta della maggioranza e la leadership di Di Maio. L’azzurra Deborah Bergamini la mette così: «Su Rousseau si deciderà se far cadere il governo o se far cadere Di Maio».
Questa sera in agenda c’è la riunione congiunta con deputati e senatori. Il vicepremier, che si è detto «stanco di perdere così», vi arriva «determinato a ripartire più forte di prima» e concentrato sulla «svolta moderata» che vuole imprimere dopo la batosta abruzzese. Ma un parlamentare M5S teme la resa dei conti: «Sarà un’assemblea di fuoco». Per mettere a tacere chi lo descrive «circondato da cattivi suggeritori», Di Maio dovrà presentarsi all’appuntamento con il «no» forte e chiaro della rete ai giudici di Catania, che vogliono processare Salvini. Eppure, anche se tutto dovesse andare come lui spera, il responso dell’oracolo non sarà una vittoria. L’aver drammatizzato il caso Diciotti fino a evocare la crisi di governo non basterà a tirar fuori il ministro del Lavoro dal vicolo cieco in cui si è infilato.
«Avremmo dovuto dire sì subito alla richiesta di autorizzazione a procedere», è il cruccio del senatore Matteo Mantero. Su questa lunghezza d’onda sono in tanti, nel Movimento. Prova ne sia la lettera che le senatrici Paola Nugnes ed Elena Fattori avevano spedito l’8 febbraio al «caro Luigi» e al «Caro Beppe», chiedendo di lasciare i senatori liberi di esprimersi invece di delegare la soluzione del rebus a una piattaforma «inadeguata». Ma la missiva, per dire del clima, è rimasta senza risposta e le due ribelli l’hanno spedita all’Huffington Post.
La base è in fiamme, sul Blog delle Stelle sono in tanti a lamentare l’appiattimento sulla Lega e il tradimento dei princìpi, in tanti a respingere la mossa di chiamare in soccorso la Rete: «Un suicidio». Il sospetto che allarma i vertici è che il tanto auspicato stop dei militanti ai giudici venga letto come la conferma che la base M5S «si sta salvinizzando». Le previsioni dicono che al Nord la maggioranza degli iscritti alla piattaforma è orientata in favore del ministro dell’Interno, quasi una folgorazione collettiva sulla via del Carroccio. A Torino i consiglieri comunali 5 Stelle hanno fatto sapere che voteranno sì all’autorizzazione a procedere, «perché non si può tradire la propria coerenza per non mettere a rischio il governo».
Beppe Grillo gronda sarcasmo contro il quesito proposto ai militanti(«Siamo tra il comma 22 e la sindrome di Procuste!») e, nell’entourage di Di Maio, serpeggia il timore che il fondatore abbia dato al capo politico un preavviso di sfratto. «Ma no, Di Maio non è a rischio — rassicura il sottosegretario Mattia Fantinati —. È un grande leader e ha fatto bene a cercare la connessione sentimentale con la base».
Sarà. Ma da due giorni il vicepremier è in silenzio. Si è imposto di tenere i nervi saldi, di non replicare alle provocazioni e di studiare le contromosse. Azzoppato dal voto abruzzese, punito dai sondaggi e sfiancato dalla fronda interna, Di Maio cerca la forza per reagire, per tornare a galla con la sua «rivoluzione». Apertura, alleanze, rivisitazione della regola del doppio mandato e un ritrovato profilo istituzionale. «Luigi ha capito il gioco di Salvini — spiega un parlamentare vicino al ministro del Lavoro —. Chi ha incendiato il Paese, adesso fa il pompiere sui nostri dossier». Consapevole che la comunicazione aggressiva e rancorosa ha fatto flop, Di Maio sta maturando l’idea di smetterla con i toni barricaderi, i gilet gialli e le scorribande da movimento di lotta, in tandem con Alessandro Di Battista. D’ora in avanti le sue parole d’ordine saranno «affidabilità, responsabilità e credibilità». E alla lunga, è il leitmotiv che riecheggia nelle stanze del vicepremier, «si vedrà chi lavora per il Paese e chi grida “al lupo, al lupo”».