Se la follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi, c’è qualcosa di insano nel modo in cui l’Italia sta gestendo la sua ultima crisi bancaria, quella di Banca Carige. La strategia ricalca esattamente quanto avvenuto in casi precedenti, dal Monte dei Paschi di Siena alle banche venete. È dunque illusorio immaginare esiti migliori.
Giovedì la società d’investimento BlackRock si è tirata indietro dal finanziare la ricapitalizzazione dell’istituto di credito ligure, lasciando così da solo il Fondo interbancario di tutela dei depositi. Questa decisione non è sorprendente: il fondo americano investe in quote di minoranza di banche, senza essere interessato a prenderne il controllo. L’idea che avrebbe cambiato questa politica per rilevare una banca dalle prospettive dubbie, visti i costi operativi elevati rispetto ai concorrenti, era sospetta. Ritornano così alla memoria le rassicurazioni simili che si ascoltavano durante la gestione della crisi delle banche venete e, soprattutto, di Mps.
Nell’estate 2016, prima del referendum costituzionale, il governo di Matteo Renzi puntò sul coinvolgimento della banca americana Jp Morgan per orchestrare una soluzione privata per il Monte. Si parlò anche di interessamenti di fondi cinesi e del Qatar, per scoprire, in pochi mesi, che non c’era nulla di concreto. A questo punto, nel caso di Carige si fa sempre più concreta l’ipotesi di un intervento pubblico, per cui all’inizio dell’anno è già stato approvato un decreto. Il problema è che, come per le due banche venete, non c’è certezza che questa soluzione superi il vaglio della Commissione europea. La cosiddetta ricapitalizzazione precauzionale viene concessa solo in caso si rischino conseguenze sistemiche, ed è difficile argomentare che un istituto dalle ridotte dimensioni come Carige rientri in questa categoria. Il pericolo è quello di perdere solo altro tempo, come si fece per le banche venete, facendo deteriorare le condizioni dell’istituto.
Si dirà che si può sempre contare sull’intervento di qualche altra banca italiana. Una possibile soluzione vedrebbe il fondo interbancario acquisire Carige nella sua interezza. La seconda ipotizzerebbe la liquidazione dell’istituto, aspettando un cavaliere bianco che ne rilevi gli asset in cambio di un generoso sussidio. Anche qui non ci sarebbe nulla di nuovo. Il mondo bancario italiano si svenò per contribuire al fondo Atlante, che non riuscì a salvare Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza nonostante le promesse. Alla fine fu Intesa Sanpaolo a intervenire, ricevendo quasi 5 miliardi di euro dallo Stato oltre a varie garanzie.
La sensazione è di essere intrappolati in una sorta di “Hotel California” del credito, da cui non si riesce a uscire. La ragione è che, al netto della propaganda politica, l’Italia non si è mai chiesta se le crisi bancarie di questi anni siano state gestite al meglio. La commissione parlamentare sulle banche della scorsa legislatura e, viste le premesse, quella che dovrebbe nascere nei prossimi mesi, sono solo strumenti in cui i politici sperano di mettersi in difficoltà a vicenda, invece di riflettere su come comportarsi con la prossima banca in difficoltà. Anche la Banca d’Italia ha preferito difendere a spada tratta il suo operato, invece di lanciare una verifica indipendente su cosa si sarebbe potuto fare meglio. Cambiano i governi, ma per il mondo bancario non cambia sostanzialmente nulla. Nell’illusione che tutto sia sotto controllo, fino alla prossima crisi.