In Europa, alcuni dei governi più contrari all’immigrazione hanno elettori preoccupati da una minaccia diversa: i loro figli che se ne vanno. Per ungheresi, polacchi o gli italiani stessi, i connazionali che partono verso l’estero preoccupano più di quanto facciano gli stranieri che arrivano, secondo un sondaggio YouGov. Poco importa che poi i partiti al potere a Budapest, Varsavia o a Roma restino popolari in vista delle elezioni europee con i loro richiami contro l’«invasione». Ma non è strano che partiti anti-immigrati in alcuni di questi Paesi siano così forti proprio mentre cresce l’ansia da emigrazione: dove il tenore di vita è basso o in declino, i due fattori coesistono.
La libertà di movimento è al cuore dell’Unione e resta una conquista storica, da difendere, anche se forse le statistiche ne sottovalutano le dimensioni. Si stanno muovendo più persone di quante le burocrazie nazionali riescano a contare. Il Ceps stima, sulla base di dati Eurostat, che nel 2017 il 20% dei rumeni, il 12% dei bulgari, il 7% dei polacchi, il 5% degli ungheresi e il 3% degli italiani vivesse all’estero. Ma dato che l’agenzia europea Eurostat riflette solo i migranti che comunicano la loro partenza al Paese d’origine, i numeri reali potrebbero essere più grandi. Per esempio l’Italia calcola che 22 mila suoi cittadini siano emigrati in Gran Bretagna nel 2017, mentre Londra quell’anno ha registrato l’arrivo di 50 mila italiani. Alcuni non perdono tempo a cancellare la residenza prima di partire, ma tutti si iscrivono all’approdo nel nuovo Paese.
Diamo dunque un’occhiata alle migrazioni dal punto di vista della principale destinazione, la Germania. Secondo Destatis, l’ufficio statistico tedesco, nei nove anni fino al 2017 i flussi migratori hanno fatto sì che 2,7 milioni di europei siano arrivati nel Paese (al netto di quelli che ne sono usciti). Due terzi di questi migranti intra-europei venivano da undici Paesi all’est e sud-est della Germania. Gli altri venivano da Portogallo, Spagna, Italia e Grecia.
In sostanza, in meno di dieci anni, la regione che per ultima è entrata nella Ue ha fatto due favori all’economia più forte: ha più che compensato il declino demografico tedesco, che avrebbe comportato la perdita di 1,6 milioni di abitanti fra il 2009 e il 2017. E ha versato oltre cento miliardi di euro nell’istruzione dei quasi due milioni di suoi giovani — età media trent’anni — poi partiti per la Germania. Se mettiamo nel conto anche i migranti dall’Europa del Sud, fra il 2009 e il 2017 la Germania ha beneficiato di investimenti in istruzione per circa 200 miliardi di euro fatti dai Paesi meno ricchi. Sono calcoli che spesso sfuggono a quei tedeschi scandalizzati all’idea di contribuire a un bilancio comune della zona euro molto più piccolo di così.
Questi grandi flussi dalle periferie al centro del sistema contribuiscono al «brain drain», la fuga dei cervelli, perché la quota dei laureati fra i migranti tende a essere molto alta. Il Fmi stima che il «brain drain» rallenti la crescita della produttività nei Paesi della periferia, allargando ulteriormente i divari di reddito rispetto alle aree più avanzate della Ue e creando fra i giovani ancora nuovi incentivi a emigrare. Non è un caso se alcuni dei Paesi più colpiti dal fenomeno — Ungheria, Polonia, Romania, Bulgaria — sono quelli nei quali la democrazia rappresentativa e lo stato di diritto sono più sotto pressione. I giovani che se ne vanno sono spesso i più indipendenti, critici e aperti al mondo, quelli che restano sono a volte il loro contrario.
Non tutti i Paesi periferici sono uguali, naturalmente, anche perché c’è una differenza fra l’Europa del Sud e l’Europa centro-orientale. Nella prima il ritardo nel tenore di vita rispetto al nucleo duro è almeno in parte ciclico e limitato — non molto più del 10%, una volta tenuto conto di cosa si compra con un euro nei vari Paesi. Ma in Europa centro-orientale, malgrado la forte crescita, la promessa di convergenza economica non è stata mantenuta.
Se prendiamo la media dei redditi di Estonia, Ungheria, Polonia e Romania e lo confrontiamo quella di Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Belgio, Svezia e Finlandia, i risultati sono impressionanti. Il reddito medio del gruppo dei vecchi membri occidentali della Ue era del 60% sopra quello dei nuovi membri nel 1989, del 65% sopra nel 1998, del 55% sopra nel 2007 e del 42% sopra nel 2016. In termini di soldi, lo scarto era di 14.751 dollari all’anno nel 1989 ed è cresciuto a 17.647 dollari nel 2016 (i dati, dal Maddison Project, sono espressi in dollari a valore costante). Tanta gente si muove da est a ovest perché la paga è così incredibilmente diversa.
Nel 2017, secondo Eurostat, i costi lordi orari del lavoro in Romania erano il 17% di quelli tedeschi, in Polonia il 21%, in Ungheria il 23%, in Cechia il 30%. Nell’ultimo decennio la distanza relativa con la Germania è aumentata per Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Croazia. Nonostante ciò, molti di questi Paesi la quota del reddito nazionale che va al lavoro si è ridotta.
La catena di fornitura della Audi riassume il problema. Il costruttore tedesco produce i suoi motori a Gyor, in Ungheria, prima di spostarli 600 chilometri a ovest per assemblarli nel telaio a Ingolstadt, in Baviera. La produttività degli addetti Audi a Gyor e Ingolstadt è simile, ma la paga base di un mese dell’operaio ungherese vale meno del costo lordo di un giorno di lavoro del suo collega tedesco. Nel frattempo molto del valore che l’azienda produce a Gyor viene monetizzato in Germania, perché è da lì che si esporta in tutto il mondo il prodotto finito con il suo marchio. I salari di fabbrica a Est restano così bassi perché non derivano da una negoziazione dei contratti come in Europa occidentale, ma sono per lo più basati su salari minimi definiti per legge. La transizione dal socialismo nei primi anni 90 è iniziata così e su quel modello quei Paesi restano bloccati, in gara gli uni con gli altri per entrare nelle filiere produttive dei grossi investitori esteri. L’anno scorso la Bmw è riuscita a mettere in concorrenza l’Ungheria e la Slovacchia per quale delle due le offrisse lo sgravio fiscale più alto. Sembra che la Slovacchia abbia offerto uno sconto del 35%. Ma l’Ungheria ha vinto con un rilancio al 50% e la promessa (poi mantenuta) di imporre per legge un’ora e mezza di straordinari al giorno, pagabili dopo tre anni. La Bmw ora progetta di costruire una fabbrica nell’est del Paese guidato da Viktor Orbán. Un gruppo di esperti coordinato da «Finance Uncovered» ha scoperto che grandi gruppi esteri spesso godono di vantaggiosi accordi fiscali su misura, nei nuovi Stati membri della Ue. Audi in Ungheria nel 2015 ha pagato zero, su un notevole margine di profitto; Mercedes-Benz l’1,6%; la catena tedesca di supermarket Lidl zero in Repubblica Ceca nel 2014. Pratiche simili si notano anche in Polonia e in Bulgaria. Fra le multinazionali beneficiarie di sgravi ci sono Škoda (Volkwagen) e Foxconn in Repubblica ceca, Ge Infrastructure in Ungheria, Lukoil in Bulgaria.
Il risultato di tasse tanto basse ad hoc sulle grandi imprese è un’aliquota Iva molto alta sui cittadini, per riequilibrare i bilanci pubblici. Così i governi in Ungheria e altri Paesi dell’Est finiscono per colpire i ceti medio-bassi in modo regressivo. Non stupisce che tanti cittadini vogliano lasciare i propri Paesi, dove si guadagna poco ma si pagano tasse altissime sui consumi. Gli investimenti esteri portano senz’altro conoscenza, favoriscono la creazione di posti e la capacità produttiva. Ricadere nella chiusura e protezionismo sarebbe un errore. Ma una struttura fiscale distorta e salari troppo bassi a Est stanno contribuendo a svuotare il ceto medio in tutta l’Unione Europea. I lavoratori in quei Paesi si rendono conto che la loro produttività è vicina ai livelli occidentali, ma loro non possono permettersi i beni di consumo dei loro colleghi da questa parte dell’ex Cortina di ferro: uno smartphone, una cura costosa, un master di qualità per i figli. Ciò è frustrante e incoraggia lo sciovinismo.
In Europa occidentale, intanto, i ceti medio-bassi sono sotto pressione perché tante imprese si spostano in Polonia, Ungheria o Romania (o minacciano di farlo) per cercare tasse e costi più bassi. La reazione è la stessa: gli elettori si rifugiano nel revanscismo e nel rancore verso la Ue. Così le differenze di fondo fra Est e Ovest d’Europa alimentano squilibri che minacciano l’intero sistema. Ora che la Ue va a elezioni, può scegliere di continuare a estrarre valore dai suoi nuovi membri. O accettare che questo è un problema da risolvere