Molti erano stati informati, tutti sapevano. Da quando la maggioranza fra 5 Stelle e Lega ha mosso i primi passi, i rapporti informali con le figure di vertice dell’Unione europea sono stati più intensi di quanto si sia visto in pubblico. Anche con la stessa Banca centrale europea, secondo alcuni osservatori diretti.
Quei colloqui mentre il governo si metteva in moto erano dominati da un tema solo: i rischi che avrebbe corso l’Italia se avesse messo in dubbio l’adesione all’euro o varato un bilancio carico di troppa spesa corrente, senza prospettive di crescita verosimili. Dai piani più alti della Bce, così come da Bruxelles, ai politici italiani era stato prefigurato quasi tutto. Si era parlato della minaccia di un balzo violento dei rendimenti dei titoli di Stato, con conseguenze negative per la ripresa e l’occupazione; di un declassamento del debito da parte delle agenzie di rating; dell’impossibilità di un sostegno ad hoc da parte della Banca centrale di Francoforte, se il governo avesse rifiutato un programma definito sul modello troika.
Questo scenario si sarebbe poi concretizzato quasi tutto nei mesi che sono seguiti. Di quanto rischiava di succedere, secondo alcuni testimoni, aveva parlato del resto in tempi non sospetti lo stesso Mario Draghi con Paolo Savona. Al ministro italiano per gli Affari europei, il presidente della Bce aveva spiegato i pericoli e i vincoli legali che impediscono alla Bce di varare un intervento solo Italia senza condizioni. Sarebbe forse possibile aprire una nuova rete di sicurezza da Francoforte, se l’area euro nel complesso fosse minacciata. Ma il contagio dal debito di Roma sugli altri Paesi fin qui è stato quasi nullo. Anche per questi antefatti, a Francoforte le critiche che arrivano sempre più spesso dall’Italia vengono registrate con una buona dose di sorpresa. È senz’altro così per quelle mosse ieri a Draghi da Luigi Di Maio: «Mi meraviglia che un italiano si metta ad avvelenare il clima ulteriormente», ha osservato il vicepremier dei 5 Stelle. Draghi il giorno prima aveva consigliato agli esponenti italiani in primo luogo di «abbassare i toni», per ridurre il costo del debito espresso nello spread fra rendimenti dei titoli a 10 anni di Roma e di Berlino. Per la verità, i grafici di mercato mostrano che quando giovedì Draghi ha parlato del caso italiano durante la conferenza stampa della Bce, i rendimenti italiani sono rimasti sostanzialmente fermi (per poi calare in serata).
Anche più sorprendenti devono suonare in questi giorni a Francoforte le osservazioni che continua a muovere Paolo Savona. «Alla Bce dovrebbe spettare il compito di indicare soluzioni per evitare la crisi sistema bancario ed eventualmente intervenire — ha ripetuto anche giovedì il ministro degli Affari europei —. Se lo spread si innalza e nessuno interviene per calmierarlo, questo è un tipico compito delle banche centrali europee». In realtà il piano di interventi dell’Eurotower ha già comprato titoli di Roma per 360 miliardi di euro e dal varo del governo ne sta comprando per circa quattro ogni mese. Eppure non sta bastando. In maggio, prima che uscisse il contratto fra M5S e Lega, il ritardo dei titoli greci a dieci anni sugli italiani era di 240 punti (2,4); ieri invece si era ristretto a appena 80, anche se la Bce nel frattempo ha comprato massicciamente carta di Roma e non ha neppure sfiorato quella di Atene. In altri termini, neanche gli interventi continui della Banca centrale funzionano, quando sul mercato la fiducia verso le scelte di un governo resta debole. Draghi giovedì da Francoforte ha notato proprio come l’Italia abbia perso terreno sulla Grecia, malgrado il forte sostegno da parte della banca centrale. Soprattutto, ha detto in pubblico ciò che aveva da tempo spiegato in privato a Savona: la Bce non può finanziare il deficit di singoli governi del club.
Resta da capire se davvero la banca centrale di Francoforte diventerà sempre di più il bersaglio per ciò che non sta funzionando per l’esecutivo di Giuseppe Conte. Dopotutto trovare un colpevole esterno — non importa se vero o solo presunto — aiuta a creare un alibi; e aiuterebbe un governo populista persino a avviare un po’ di marcia indietro senza perdere la faccia, quando un compromesso a Bruxelles sul bilancio diventerà disperatamente necessario.