La manifattura italiana ha risposto alla Grande crisi scomponendosi in filiere produttive e recuperando così in flessibilità ed efficienza. Il settore dei servizi ha invece maturato un diverso indirizzo: ha fatto prevalere la dittatura del massimo ribasso e rafforzato la tendenza verso un terziario low cost. È questo il contesto nel quale va letta la disputa di queste ore, all’interno del governo, sulla tassazione delle partite Iva. Lo sforzo da fare è quello di considerare il lavoro di professionisti e free lance non una materia riservata ai soli fiscalisti ma una delle questioni chiave del rilancio del sistema Paese. Si può pensare a un ciclo virtuoso dell’innovazione che non veda come protagoniste le moderne competenze professionali, il cui modello lavorativo si colloca sempre di più fuori dalle grandi organizzazioni?
L a risposta ovvia è no, eppure ci comportiamo in maniera opposta. Guardiamo il Fisco invece della luna. Con lo stesso vizio si era mosso il precedente governo che, con il solo scopo di consolidare la vicinanza tra il centrodestra e le partite Iva, aveva varato una legge, la cosiddetta mini flat tax, che aveva subito fatto storcere la bocca a un attento conoscitore della materia come Giulio Tremonti. Non avendo la bussola per affrontare le questioni legate alla fragilità del terziario italiano i leghisti hanno promosso norme che si sono rivelate distorsive sin dai primi mesi e hanno favorito un ulteriore abbassamento della qualità del terziario. Del resto con un Pil stagnante e un’economia a scartamento ridotto era possibile che nascessero migliaia di nuove attività con partita Iva? No, il ciclo economico è comunque più forte delle norme fiscali e così la mini flat tax più che spingere verso l’auto-imprenditorialità legioni di giovani è servita solo per aggiustamenti fiscali di carattere opportunistico. Come i trasferimenti dal lavoro dipendente a quello autonomo per usufruire di svariati punti in meno di tassazione oppure come la destrutturazione di studi professionali in tante partite Iva individuali con lo scopo di cui sopra.
Il nuovo governo aveva il diritto e il dovere di intervenire per riparare queste distorsioni ma gli uomini che ne compongono il baricentro politico hanno il difetto di non conoscere il mondo delle partite Iva e di essere legati ai vecchi schemi di una sinistra fordista, portata a pensare che fuori dalle grandi organizzazioni ci sia solo marginalità professionale e culto dell’evasione. Così quello che poteva essere un intelligente ridisegno della legge leghista è diventato uno strumento di punizione per professionisti e free lance, che di fatto avevano trovato nella flat tax una compensazione (impropria) a un mercato e a una committenza (anche pubblica) che giocano al massimo ribasso e non riconoscono il valore creato a valle del processo manifatturiero. Ci consideriamo il Paese della creatività ma pretendiamo di pagare poco il lavoro creativo. Una coalizione seppur litigiosa come quella al potere avrebbe potuto articolare il messaggio rivolto alle partite Iva correggendo le norme più distorsive della flat tax e impegnandosi però a rivedere i meccanismi che originano il massimo ribasso e più in generale i servizi low cost. Non oso dire che chi coltiva l’ambizione di arrivare a fine legislatura dovrebbe commissionare una grande indagine conoscitiva sui ritardi del terziario italiano, ma potrebbe almeno riprendere il filo che aveva portato i precedenti governi di centrosinistra a varare lo Statuto del lavoro autonomo. Infatti una più attenta lettura delle contraddizioni della nostra società dovrebbe portare a capire come la linea delle disuguaglianze attraversi anche il mondo delle partite Iva, se è vero che le donne prendono in media solo il 60% dell’onorario degli uomini e un giovane professionista solo dopo i 40 anni riesce a percepire il 60% del reddito di un suo collega più anziano. Dietro la querelle sul lavoro autonomo c’è dunque tanta trama, peccato che sia una filmografia che continua a rimanere ostica a una sinistra rimasta innamorata delle vecchie pellicole.