Nella cultura politica del ministro Luigi Di Maio è facile riscontrare un pregiudizio di fondo nei confronti dell’impresa e della libera iniziativa. In qualche occasione, da politico scaltro qual è diventato, gli è riuscito persino di mascherare questo sentimento «primordiale» e di raggranellare qualche applauso di platee disattente. E dunque se al momento della definizione degli incarichi Di Maio ha voluto intestarsi anche il ministero dello Sviluppo economico uno psicologo potrebbe spiegarci che l’ha fatto proprio per punire l’impresa, per far sentire agli industriali quanto può far male il nodoso bastone della politica. In fondo chi lo ha compreso subito e bene è stato il gruppo dirigente di Foodora, la società tedesca di consegna del cibo a domicilio. Dopo le prime e inconcludenti riunioni ministeriali sul tema dei rider i manager del gruppo hanno capito con chi avevano a che fare e hanno fatto la scelta più tranchant, hanno venduto le loro attività e se ne sono andati dall’Italia. Nessuno si è strappato le vesti, i problemi dei rider però sono ancora irrisolti e forse tutti abbiamo sottovalutato quell’indizio. E sì, perché sembra proprio che Luigi Di Maio voglia “foodorizzare” il sistema delle imprese, indurlo a mollare e se straniero a non investire più in Italia. Il ministro forse pensa che in una società a bassa presenza industriale e senza multinazionali il suo Movimento potrebbe pescare più voti grazie all’elargizione a pioggia di un reddito di esistenza. La volontà di far sentire alle imprese la prepotenza della politica l’abbiamo vista innanzitutto nello scempio di competenze che Di Maio ha operato al Mise, dove ha promosso i suoi e operato una scellerata riorganizzazione che sta mettendo in seria difficoltà persino i fisiologici rapporti tra ministero e imprese. Ma sicuramente negli ultimi giorni il sentimento anti-industriale del ministro si è manifestato con maggiore virulenza. Il primo caso si chiama ArcelorMittal, la multinazionale franco-indiana che si sta impegnando a bonificare lo stabilimento Ilva di Taranto come da contratto sottoscritto con lo Stato italiano e alla quale di fatto Di Maio ha deciso di dichiarar guerra. E’ un caso di foodorizzazione perversa perché se ArcelorMittal dovesse lasciare Taranto – come ha minacciato fissando persino un ultimatum al 6 settembre – non ci sarebbe un altro giro per l’acciaieria più grande d’Europa. Si andrebbe alla chiusura e allora per il territorio non resterebbe che quella particolare riconversione economica che il ministro del Sud, Barbara Lezzi, ha individuato nel primato della mitilicoltura. Cozze al posto dei coils.
Con Atlantia il ministro è stato ancora più prepotente. Ha voluto colpire il gruppo a borse aperte quasi a dimostrare al suo vecchio amico e ora rivale, Alessandro Di Battista, che quando vuole la sa sparare più grossa di lui. Ora del gruppo Atlantia tutto si può dire tranne che sia «decotto» e comunque non si è mai visto un ministro di un paese del G7 puntare a buttare giù il titolo di un’azienda nazionale. Se nel caso ArcelorMittal la furia iconoclasta di Di Maio è passata sopra qualsiasi coerenza di tipo giuridico, nella vicenda di ieri il ministro si è voluto prendere beffe del sistema finanziario e delle sue più elementari regole di trasparenza. Ma il sentimento anti-industriale che lo agita è evidentemente più forte delle normali cautele che un uomo di governo dovrebbe osservare. Proprio per questo motivo sarebbe opportuno che sui due delicati dossier in discussione (il futuro di Taranto e i rapporti con Atlantia) facesse sentire la sua voce il presidente del Consiglio.