«Ce la dobbiamo fare. Adesso siamo andati troppo avanti per tornare indietro». Se lette con la lente del 27 settembre scorso, giorno in cui il tandem Di Maio-Salvini aveva vinto il primo braccio di ferro sulla manovra imponendo il deficit del 2,4%, le parole consegnate da Giuseppe Conte ai due vicepremier nella notte tra sabato e domenica avrebbero avuto un altro segno. Quello della rottura con le cancellerie europee, dello strappo con Bruxelles. E invece, quando tornando da Buenos Aires il premier evoca il «troppo avanti per tornare indietro», in testa ha uno schema uguale e contrario a quello che avevano in mente i due vicepremier alla genesi della «manovra del popolo». Per Conte, ormai, è la trattativa con l’Europa ad essere «troppo avanti» per poter rifare tutto daccapo. Trattare, per l’inquilino principale di Palazzo Chigi, è diventato un mantra irrinunciabile. Forse anche di più del reddito di cittadinanza caro al M5S e della quota 100 cara alla Lega.
Dopo settanta e passa giorni dall’approvazione della nota di aggiornamento al Def, Conte fa un passo nella direzione dei ministri più cauti. È più «colomba» che «falco», ormai. E quello che ha in mente adesso il premier sembra sempre più coincidere con le annotazioni che ministri come Savona e Moavero hanno messo a verbale nelle ultime settimane. L’obiettivo del Professore è evitare la procedura d’infrazione a tutti i costi. I margini ci sono, la via è strettissima ma ancora praticabile. «L’Europa ci chiederà di abbassare il deficit dal 2,4 al 2», è la previsione che Giovanni Tria consegna ai fedelissimi subito dopo i lavori del G20. All’asticella indicata dal ministro dell’Economia, adesso, anche il numero uno del governo è disposto ad arrivare.
A questo punto della storia, inizia un’altra partita. Scompaiono gli altri ministri, scompare Juncker, scompare l’Europa. Sulla scena rimangono in tre. Conte, Di Maio e Salvini. Il primo, che per mesi ha dato l’impressione di muoversi come una specie di notaio tra i due contraenti del contratto, ha acquisito con la trattativa internazionale degli ultimi giorni un’altra veste. Dietro le quinte, negli ultimi giorni, sembrava emergere una specie di spaccatura tra il capo politico dei M5S e il leader della Lega sulle risorse da «salvare» e su quelle «rinunciabili». E invece, per una volta, la vulgata di Palazzo che li descrive come «d’amore e d’accordo» sembrerebbe più vera rispetto di tante altre volte. Racconta un ministro che «adesso non siamo più di fronte alla storia del Di Maio contro Salvini e viceversa. Adesso i due vicepremier stanno da una parte, e sarebbero ancora pronti a rompere con l’Europa pur di difendere le promesse fatte in campagna elettorale. Conte sta dall’altra, e vuole solo evitare lo strappo con l’Ue».
La situazione tra i tre, in un momento indefinito degli ultimi tre giorni, potrebbe essersi anche avvicinata a una specie di punto di rottura. Conte, che ha vinto il primo round imponendo la moratoria di qualche giorno su reddito di cittadinanza e pensioni, avrebbe chiesto e ottenuto dagli altri due una specie di dichiarazione di fiducia pubblica. Ed è arrivata, nero su bianco, nella nota — con tanto di ringraziamento — in cui Di Maio e Salvini ieri sera hanno definito il premier «il garante ideale della nostra interlocuzione con l’Europa». C’è scritto anche «senza rinunce», nella nota dei due vicepremier che premono sulle loro richieste. Ma anche da Palazzo Chigi fanno notare che l’unica cosa davvero irrinunciabile, nei prossimi giorni, è riuscire ad evitare la procedura d’infrazione. Il 27 settembre scorso sembra lontano, lontanissimo.