Chi decide per l’Italia è uno dei tanti enigmi che rendono tanto complessa ogni scelta, anche sulle nomine, in un’Europa ridotta a un arcipelago in cui si va avanti senza bussola. Il capo del primo partito e vicepremier, Matteo Salvini, va poco a Bruxelles e altrettanto di rado si confronta con i leader del resto dell’Unione Europea. Giuseppe Conte è il suo opposto: è molto spesso a Bruxelles, ha intessuto un rapporto personale con molti dei suoi pari, ma a Roma non siede in Parlamento e non ha un partito alle spalle.
Con queste premesse, era questione di tempo prima che il contrasto esplodesse. È successo ieri. Conte si è rifiutato di adeguarsi al rifiuto preventivo di Salvini sull’unico nome sul tavolo per la presidenza della Commissione europea: Frans Timmermans, socialista e olandese: «Ho le mani libere, non vengo qui con un atteggiamento di veto ma di dialogo». Il premier voleva invece negoziare il suo assenso all’approccio del candidato sui conti dell’Italia. Sa anche lui che i nomi che potrebbero imporsi nei prossimi giorni al posto dell’olandese sono di arbitri decisamente più inflessibili: la liberale danese Margrethe Vestager, il centrista francese Michel Barnier, la popolare bulgara Kristalina Georgieva. Per ora l’attuale Commissione di Jean-Claude Juncker e del suo vice Timmermans chiedono che il governo italiano prenda oggi stesso impegni formali su come limiterà il deficit nel 2020. Ciò permetterà di accantonare l’attuale minaccia di procedura. Ma a novembre una nuova Commissione riprenderà le promesse messe agli atti a Roma in questi giorni e le confronterà con il bilancio nero su bianco. Per allora un uomo ragionevole come Timmermans potrebbe mancare moltissimo.
Del resto con le elezioni del 26 maggio l’Europa non è cambiata nel senso che promettevano i nazionalisti a Sud come a Est delle Alpi. Non hanno vinto loro, eppure attorno a quella data l’Europa ha subito davvero una metamorfosi. L’Unione Europea non vive più nel mondo di ieri. Non tanto perché ricondurre a unità questo arcipelago geografico, politico, di modelli istituzionali è sempre più un rompicapo. Soprattutto, a differenza che in passato, più nessuno al centro è in grado di garantire l’equilibrio.
Come stia cambiando il cuore del sistema emerge dalla trasformazione del primo gruppo all’Europarlamento, quello del Partito popolare europeo. È stato il grande sconfitto delle ultime elezioni con i Socialisti e democratici (S&D), dato che ha perso il 5% dei voti. Fra gli europei che hanno meno di trent’anni, per la prima volta non è più il partito più votato. Ma si fa sentire forse ancora di più il fatto che i suoi equilibri interni stiano cambiando in un modo che rende questa forza quasi irriconoscibile. Due legislature fa tedeschi, italiani, francesi e spagnoli erano il perno di tutto, esprimendo 129 eurodeputati popolari. Nella scorsa legislatura la spina dorsale centrista e occidentale era già scesa a 90 seggi; in questa è di soli 56. Il manipolo dei tedeschi della Cdu e Csu ormai trovare un equilibrio con le delegazioni centriste di Polonia o Romania e anche quella di destra radicale dell’Ungheria: da questo mese queste ultime contano più di quelle di Stati fondatori come Francia o Italia. Non è un caso se ieri nella riunione del Ppe proprio le delegazioni orientali abbiano disfatto l’accordo tessuto giorni prima da Angela Merkel. Alcuni l’hanno accusata apertamente di «tradimento», perché con l’apertura al socialista Timmermans avrebbe pensato soprattutto a tenere in vita la sua grande coalizione a Berlino.
Attorno alla cancelliera, il nucleo politico d’Europa non è più quel che era. Incrinato in profondità è anche il rapporto fra le capitali capaci in passato di far sì che ogni tassello andasse a posto. Fra Merkel e Emmanuel Macron non si contano più semplici incomprensioni. Nelle ultime settimane fra la leader tedesca e il presidente francese la relazione si è degradata in uno scambio di sgarbi appena dissimulati, il più evidente tre settimane fa. In pieno stallo sulle nomine, Macron ha lanciato in pubblico la candidatura di Merkel alla presidenza della Commissione senza consultarla: per il presidente francese era un modo di indurre la collega tedesca al rifiuto, per affondare così la candidatura del popolare tedesco Manfred Weber che la Germania sostiene. Merkel si è solo detta «rattristata» che la sua parola non sia presa sul serio quando dice di non volere un posto a Bruxelles.
Il motore franco-tedesco non gira più, ingrippato dalla diffidenza reciproca. Non riesce più a tirarsi dietro un convoglio che conta evidenti tentativi di ribellione in più di un vagone: Polonia e Ungheria, che vogliono poter piegare la democrazia a un modello illiberale senza che Bruxelles metta bocca; l’Italia, il cui debito pubblico viene sempre di più considerato la maggiore minaccia per la stabilità finanziaria in Europa.