«Il governo terrà: anche dopo le Europee. Ho visto che Fitch ci classifica come Paese stabile con prospettive negative legate soprattutto all’instabilità politica; addirittura ipotizza elezioni anticipate in questo 2019. Sinceramente, questa instabilità non riesco proprio a vederla. Per questo rimango convinto che andremo avanti. La spinta per il cambiamento e le riforme non si è ancora esaurita» . Alla vigilia del suo viaggio in Africa, Giuseppe Conte scansa con una punta di fastidio le previsioni diffuso l’altro ieri dalla società di rating . Meglio: prende atto di quelle economiche, ma respinge quelle politiche.
«Se parliamo di previsioni di natura politica, l’opinione di Fitch vale quanto altre analisi politiche che correntemente si fanno», sottolinea il presidente del Consiglio. Non sembra proprio rassegnato all’idea che la sua maggioranza litigiosa si prepari a frantumarsi. Significa che o da Palazzo Chigi la visione delle cose tende a allontanarsi dalla realtà, o che la realtà è meno fosca dell’immagine che se ne ha. «Passo lunghe ore a lavorare a Palazzo Chigi», spiega Conte. «Ma viaggio anche molto per l’Italia. E credetemi: la voglia di archiviare la vecchia politica e i vecchi partiti non solo rimane intatta ma in questi mesi si è consolidata, nell’opinione pubblica. D’altronde, mi pare che i sondaggi ci diano un consenso alto, inusuale nello stesso contesto europeo. Non può essere un caso o un errore».
Danno anche, però, la Lega di Matteo Salvini oltre il 30 per cento dei voti. E il Movimento Cinque Stelle, che ha espresso il premier, con consensi in picchiata. Gli inviti a Salvini dal resto del centrodestra affinché disdica il «contratto per il governo del cambiamento» stanno diventando pressanti. Anche queste prospettive, tuttavia, non riescono a scalfire la fiducia del premier in carica. Se teme qualcosa, lo nasconde bene, dietro parole serafiche.
È consapevole che le Europee del 26 maggio potrebbero diventare un moltiplicatore delle frustrazioni grilline e delle ambizioni salviniane. Sarà quello, lo spartiacque. «Forse, e sottolineo forse, perché la campagna elettorale sarà lunga, durerà fino a maggio inoltrato», precisa, «potrebbe anche accadere che le forze della maggioranza possano ricevere un consenso proporzionalmente diverso rispetto alle Politiche del 4 marzo di un anno fa. Ma se anche accadesse, questa esperienza di governo non ne risulterebbe condizionata. So di avere l’appoggio e il sostegno di leader politici avveduti e responsabili, che dunque non compiranno l’errore madornale di interrompere l’esperienza di un governo nato per realizzare un ampio disegno riformatore, con un programma che ambisce a coprire l’intera legislatura. Sarebbe un errore per quello che stiamo facendo, e soprattutto per quanto resta da fare. Ci sono quattordici decreti attuativi in attesa di entrare in vigore. È questa la ragione per la quale non vedo scosse né dopo il voto in Sardegna, né dopo le Comunali in Sicilia; né, ripeto, dopo le Europee».
Ma non c’è solo il messaggio a doppio taglio di Fitch. C’è una produzione industriale in calo. Ombre corpose di recessione. E istituzioni internazionali concordi nell’additare l’Italia gialloverde come un possibile focolaio di instabilità, economica prima ancora che politica. Sullo sfondo rimane uno spread, il rapporto tra gli interessi sui titoli di Stato italiani e tedeschi, osservato come un vulcano che brontola, anche se non c’è ancora un’eruzione. In privato, molti ammettono di temere un’impennata prima ancora di arrivare alle elezioni europee. E si dichiarano sicuri che il governo sarà obbligato a tamponare la situazione con misure eccezionali e impopolari: provvedimenti che, probabilmente, dovranno essere presi comunque per affrontare la prossima manovra finanziaria.
Il presidente del Consiglio, però, sparge abbondanti dosi di camomilla. Non esorcizza lo spread, ma cerca di relativizzarne sia l’entità che il possibile impatto. «La verità è che a oggi non vedo i presupposti che dovrebbero fare lievitare lo spread», osserva. «E poi noto un fenomeno strano. Ci sono momenti in cui, con lo spread a un certo livello, se ne parla molto e in maniera allarmata. In altri momenti, con lo stesso livello, se ne parla poco o nulla: come se l’attenzione dipendesse da una bolla mediatica che si gonfia o si sgonfia a seconda degli impulsi esterni». L’analisi e la tesi di Conte sono suggestive. Ma possono indurre al sospetto che il premier voglia sottovalutare, oppure non riesca a vedere fino in fondo, il pericolo di un avvitamento dei conti pubblici.
La risposta è negativa. «Non sottovaluto proprio nulla», replica. «So quanto costa e quanto sia insidioso ignorare gli effetti di uno spread alto: per i nostri conti, per gli investimenti, e per la stessa credibilità internazionale dell’Italia. Ma non può essere un totem che condiziona ogni scelta di politica economica. Sicuramente ha un effetto mediato sullo scenario economico ma non intendo affatto esagerarne gli effetti sullo scenario politico». Ma si continua a parlare di imposta patrimoniale e di manovra correttiva, sotto gli occhi di un’Europa diffidente e in difficoltà, tentata di fare di un’Italia isolata un capro espiatorio. Anche su questo, Conte si mostra reciso.
Assicura che «è da escludersi l’imposizione di una patrimoniale. E escludo una manovra correttiva, anche perché è stato inserito il meccanismo cautelativo che prevede il blocco a luglio della spesa per due miliardi di euro nell’ipotesi che i conti pubblici non siano in linea con le previsioni». Insomma, la fase due dell’esecutivo gialloverde sembra rimandata a dopo le Europee. Forse, non poteva essere diversamente. Il problema è come ci arriverà non solo il governo ma l’Italia.