La crisi sanitaria scatenata dal contagio del coronavirus diventerà sicuramente economica e farà male, molto male. Ma potrebbe diventare subito anche sociale. È uno scenario realistico che Giuseppe Conte tiene in considerazione da giorni e che ieri gli è esploso in faccia con i picchetti degli operai, gli scioperi dei sindacati, la rivolta dei dipendenti di molte aziende, dei rider delle consegne a domicilio esclusi dalle categorie messe in quarantena per decreto, le proteste dei partiti di opposizione guidati da Matteo Salvini ma anche di alcuni leader di maggioranza.
Questa mattina il presidente del Consiglio avrà un confronto in videoconferenza con le associazioni degli industriali e le sigle sindacali, alla presenza dei ministri del Lavoro, dello Sviluppo economico e dell’Economia. Per prima cosa illustrerà il protocollo di sicurezza nelle fabbriche a tutela della salute dei lavoratori, contenente le linee guida da attuare in ogni stabilimento: dotazione di mascherine (le nuove che arriveranno saranno divise tra sanitari e operai), distanza di sicurezza, nei reparti e in mensa, sanificazione degli ambienti e dotazione di gel e disinfettanti per la persona. Poi, il premier spiegherà con quale criterio ha scelto le attività da tenere aperte. «C’è una filiera produttiva interconnessa e ogni decisione ha conseguenze che devono essere calcolate».
L’altro ieri, nel lungo pomeriggio che ha portato al videomessaggio che ha annunciato il blocco nazionale delle attività commerciali, Conte si è riunito con un gruppo di lavoro che ha pensato a lungo quali settori includere e quali no. A molte domande che oggi si fanno gli italiani nel governo hanno tentato di dare una risposta. Le fabbriche? Se chiudi la produzione della plastica, potrebbero mancare le bottiglie per l’acqua, o i contenitori, se fermi quella del cartone. Se le industri non producono la componentistica, rischiano di saltare i macchinari che hanno bisogno di ricambi. «L’Italia non è la Cina, non ha la sua estensione geografica – è la spiegazione di Conte – Non si può fermare tutto, anche perché serve mantenere le condizioni minime di produzione per affrontare l’emergenza sanitaria». Quando la regione di Hubei è stata sigillata e desertificata, costringendo le persone a blindarsi in casa, fermando trasporti e industrie, c’era comunque il resto del Paese che garantiva le linee di produzione essenziali.
Molti interrogativi però ci sono stati anche sulla scelta di tenere aperti altre attività. Anche su questo Conte ha una risposta. I benzinai: non puoi lasciare a secco gli autotrasportatori che portano i beni di prima necessità. Gli alberghi: servono per i soldati, i poliziotti, come è successo a Codogno quando è diventata zona rossa. Ma gli hotel sono aperti anche per chi assiste un parente portato in ospedale. Gli idraulici e gli elettricisti: molta gente che vive da sola potrebbe aver bisogno se dovesse saltare la corrente o le tubature. L’Italia ieri si è svegliata più vuota. Ma non del tutto. E la selezione ha scatenato ancora una volta la reazione di Salvini, convinto che vada chiuso tutto, per 15 giorni. Dal fronte leghista, il governatore della Lombardia Attilio Fontana è apparso meno duro, ma comunque critico verso le incongruenze che ancora restano nel decreto. Sulle imprese, come sui trasporti locali e sugli uffici pubblici.
Va trovato un equilibrio tra ragioni sanitarie, di sicurezza e la necessità di garantire attraverso una rimodulazione della mobilità il tessuto produttivo per tenere in vita il Nord e il resto del Paese. Conte ne è consapevole. Il decreto dove possibile incentiva al massimo lo smart working, ma per le industrie è più difficile. Conte confida nella riduzione del contagio grazie a una nuova consapevolezza acquisita dagli italiani che si sono chiusi in casa. Non vuole «far saltare in aria il Paese» e considera le parole di Salvini «facili slogan», che «soffiano sul fuoco sociale». Il leghista gli ha mandato un messaggio nella notte di mercoledì, dopo essersi congratulato per il decreto. Vorrebbe firmare «una tregua» con il premier, avere una maggiore «condivisione delle informazioni e delle scelte». Ieri mattina però, appena sveglio, Salvini ha frantumato ogni buona intenzione: «Il decreto è diverso da come lo ha annunciato. Di fatto ha chiuso solo i negozi che già stavano chiudendo».