Un’incertezza che si ripercuote sull’economia britannica e non solo, con il rischio di compromettere la crescita Uk nel medio e lungo periodo. Con un impatto per il nostro export, visto che la Gran Bretagna rappresenta 23,1 miliardi delle esportazioni italiane (dato 2017), con un impatto maggiore nel settore delle bevande e dell’agroalimentare e che nel periodo 20012-2017il Regno Unito ha coperto una quota media annua di oltre il 5% dell’export italiano nel mondo.
È l’analisi fatta ieri dal Centro studi di Confindustria. Rischi, ma anche opportunità: i tempi e le modalità più incerti sull’uscita dalla Ue potrebbe far allontanare alcune multinazionali dal territorio britannico e quindi costituire un’opportunità per gli altri paesi europei. Per l’Italia potrebbe concretizzarsi in un aumento degli investimenti diretti esteri di 26 miliardi, che si tradurrebbe in un aumento del pil di 5,9 miliardi di euro all’anno, cioè lo 0,4 del pil. Solo che per il Csc «l’Italia si trova impreparata» a cogliere le chances legate a questa situazione, per ragione di ordine «istituzionale e strutturale». Sul fronte strutturale il nostro paese ha uno svantaggio competitivo nei servizi finanziari rispetto a Germania, Francia, Paesi Bassi. Su quello istituzionale l’Italia, insieme a Gran Bretagna, è il secondo paese tra i più critici rispetto all’attuale architettura della Ue.
Proprio sulle opportunità che si potrebbero presentare ha insistito ieri il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, parlando a margine di un convegno sulle infrastrutture: «il problema non è quante imprese collaborano con la Gran Bretagna, ma come l’Italia potrebbe e dovrebbe candidarsi ad attrarre investimenti», ha detto Boccia, aggiungendo che «i dati previsionali del rallentamento dell’economia globale non fanno presagire niente di positivo». Preoccupato anche il presidente della Piccola industria di Confindustria, Carlo Robiglio: «la bocciatura dell’accordo non è una bella notizia, è un ulteriore elemento di incertezza, un vulnus anche per l’imprenditoria italiana».
Il governo sta preparando un decreto con alcune regole per evitare un blocco traumatico del mercato finanziario italiano, come anticipato dal Sole 24 Ore nei giorni scorsi. L’aspetto finanziario è in primo piano: come scrive il Csc, che è diretto da Andrea Montanino, ci sono molti rischi sulla capacità dell’Italia di allocare il proprio debito e sul credito, oltre agli effetti negativi di una maggiore frammentazione dei capitali che vengono attualmente concentrati sulla piazza di riferimento londinese. C’è il timore di «un aumento della bolletta dei servizi finanziari». Se l’Italia non riuscisse a finanziarsi in modo efficiente e con gli stessi costi «l’aumento dei tassi di interesse ricadrebbe una parte su imprese e famiglie e una parte sulle banche, con maggiori costi per erogare il credito». La Gran Bretagna ad oggi, scrive il Csc, rappresenta la banca di investimento europea, dal momento che una parte molto consistente di obbligazioni e azioni emessa nella Ue coinvolge istituzioni finanziarie basate nel Regno Unito».
Tornando alle imprese, la possibilità di un non accordo che è stata rimessa sul tavolo da Londra potrebbe secondo il Centro studi confindustriale comportare uno scenario in cui almeno per un periodo e per determinate categorie di prodotto si potrebbero utilizzare le regole tariffarie del Wto. Per quanto riguarda gli investimenti esteri, è positivo che i settori italiani a maggiore presenza di capitali stranieri sono gli stessi che occupano le prime posizioni nella distribuzione degli Ide in Gran Bretagna.