È l’«industria 4.0», bellezza. Quanto ne abbiamo sentito parlare? Oggi ce la troviamo di fronte, in tutta la sua forza. La quarta rivoluzione del lavoro, dopo il vapore, la catena di montaggio e l’avvento del computer. Industria 4.0 significa proprio questo: dialogo. Un nuovo scambio tra operatore, macchina e strumento, che consente di integrare i sistemi, per migliorare le condizioni di lavoro e per aumentare la produttività. Magazzini e macchine connessi, controlli remoti, automazioni. Gli smartwatch della «Dab», di cui si è parlato in questi giorni, in fondo cos’erano? È che una tecnologia al polso ancora spaventa. I vecchi equilibri scricchiolano.
«Sfidare il futuro però è una battaglia persa — sostiene il professor Fabrizio Dughiero, prorettore dell’Università di Padova al Trasferimento tecnologico e ai rapporti con le imprese —. La tecnologia avanza: chi la sfrutta ne trae vantaggio, chi fa le barricate farà i conti con la realtà. Ma attenzione, non si può pensare di far calare dall’alto la tecnologia se le imprese in primis, e quindi i lavoratori, non hanno capito di cosa si tratta. Se le tecnologie non si conoscono la prima cosa che si fa è evitarle, subentra la paura dell’ignoto». C’è un recente studio dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, firmato Dejan Pejcic, ricercatore della Scuola di Economia, Lingue e imprenditorialità per gli scambi internazionali, che in questo senso fotografa molto bene la situazione: per dire, tra gli imprenditori veneti si registra ancora una grande discrepanza tra coloro che dichiarano di conoscere una determinata tecnologia e coloro che poi effettivamente la utilizzano. Le stampanti 3D? Metà delle imprese sanno più o meno di cosa si tratta, solo l’8% le adopera.
«Formare e informare, sono le prime cose che faremo appena verrà attivato il nostro competence center», sottolinea Dughiero che, tra le altre cose, è appunto il coordinatore degli atenei del Nordest per lo sviluppo di questo polo dell’innovazione voluto dal ministro Carlo Calenda (è il piano «Industria 4.0»). E ieri tra l’altro c’è stato proprio il primo incontro tra le nove università nordestine che partecipano al progetto: «Ci siamo divisi i compiti — spiega il professore —. E ora aspettiamo che si muovano anche i privati, con idee e con finanziamenti. Dallo Stato, che proprio la settimana scorsa ha stanziato complessivamente 30 milioni di euro, a noi dovrebbero arrivare 5-6 milioni per partire e poi altri 3-4 per avviare le singole attività. Il bando scade il 30 aprile. Un’ idea comunque c’è già: il nostro competence center sarà il luogo dove imprenditori e lavoratori verranno per capire come funziona una determinata tecnologia e come potrà essere utile per i loro prodotti e i loro processi. Faremo formazione vera».
L’ottica è quella di superare le paure. Anche in tema di sviluppo occupazionale. L’onda digitale è destinata, infatti, a cambiare le forme del lavoro. Dalla «manodopera» alla «mentidopera», si dice: più specializzazione, più flessibilità. Quando nel 2016 è stata presentata al World Economic Forum la ricerca The Future of the Jobs , si diceva che l’industria 4.0, nei primi anni, avrebbe portato l’Italia ad un pareggio: 200mila posti di lavoro creati, altrettanti persi. Per quanto riguarda il Veneto, tuttavia, i dati al momento confortano. È ancora il già citato studio di Ca’ Foscari a affermarlo: osservando l’andamento dello stock occupazionale nel biennio 2012-2014 si nota come siano proprio le imprese che adottano le tecnologie ad avere creato il maggior numero di posti di lavoro (un estratto nella tabella sopra). E anche la produttività sembra in crescita. Certo, le ombre non mancano. In tema di salari, per esempio. «In termini assoluti il capitale umano si vede riconoscere un premio – si dice -, ma in termini relativi emerge un problema di ridistribuzione. La tesi è che il maggior valore aggiunto portato dalla digitalizzazione venga trattenuto in azienda per ulteriori investimenti». Ma quanto sarà possibile tenere i lavoratori lontani da questa torta?