Che Europa sia quella che in questi giorni rende omaggio a Mario Draghi lo si intuisce dalla condizione in cui si trova Angela Merkel. Anche la cancelliera domani sera sarà a Francoforte per la cerimonia di commiato del presidente della Banca centrale europea. Ma per lei si tratterà giusto di qualche ora di sollievo dall’ultima polemica che la investe: in molti la attaccano, anche nel suo partito, da quando lei è intervenuta di persona perché Huawei sviluppasse la rete digitale in 5G della Germania. Ora, quella tecnologia permetterà ai dati in rete di viaggiare venti volte più veloci e diventerà il sistema nervoso delle economie avanzate. Cambierà il modo e i luoghi nei quali l’industria produce, le città funzionano, le persone comunicano, gli Stati spiano o interferiscono nella vita di altri Stati rivali. E la cinese Huawei ha l’obbligo legale di cooperare con il partito comunista di Pechino.
Anche in Germania, non solo negli Stati Uniti, molti stanno sostenendo in questi giorni che la cancelliera non avrebbe dovuto fidarsi. Ha messo un bene strategico del suo Paese nelle mani di un altro Stato, autoritario e potenzialmente nemico. A quanto pare però Merkel ha dovuto piegarsi alle pressioni dei grandi gruppi auto tedeschi, che temono di perdere quote sul mercato cinese se il loro governo annunciasse scelte sgradite a Pechino. Huawei magari davvero spierà. Ma rifiutarle la licenza tedesca oggi sarebbe stato un affronto alla Cina che il made in Germany, in recessione industriale, non vuole rischiare. Così il Paese più forte dell’Unione europea è ridotto sul piano internazionale al rango di nano geopolitico. La Germania è resa ricattabile dalla propria dipendenza dall’export — dunque dall’arbitrio dei poteri che governano i suoi mercati di sbocco — aggravata da una carenza di investimenti che obbliga i tedeschi a diventare clienti di tecnologie altrui. Questa improvvisa presa di coscienza della propria vulnerabilità sta cambiando anche l’approccio di Berlino verso il resto d’Europa. La Germania ha smesso di incalzare gli altri perché emulino il proprio modello ed è entrata in una fase di ripiegamento. Ma, come ricorda Eurointelligence, la vicenda di Huawei è emblematica di una debolezza non solo tedesca ma più in generale europea: se questo è il Paese più forte, immaginarsi gli altri.
Tutto questo naturalmente non avrebbe niente a che fare con Draghi, non fosse che il presidente della Bce era l’ultimo leader riconosciuto che l’Europa avesse nel mondo. Ora che esce di scena, questa Unione diventa sempre più palesemente acefala. Il primo requisito della leadership del resto è la continuità, il sapere di essere ancora in circolazione tra qualche anno per far valere le minacce o le promesse che si è in grado di formulare oggi. Ma guardiamoci intorno: Ursula von der Leyen alla Commissione e Christine Lagarde alla Bce hanno sì un’alta aspettativa di vita politico-istituzionale, ma iniziano le loro presidenze fra mille dubbi. Nel caso di Lagarde, manca la competenza tecnica che è servita a Draghi per dominare intellettualmente un organismo di vertice della Bce che tende a dilaniarsi. E di von der Leyen si contano già gli errori che ne minano la credibilità nel rapporto con l’Europarlamento e alcuni dei principali governi.
Quanto ai leader nazionali, oggi hanno alte probabilità di essere in circolazione fra tre o quattro anni in Europa solo Sebastian Kurz a Vienna, Viktor Orbán a Budapest e Emmanuel Macron a Parigi. E poiché il primo è espressione di un piccolo Paese, il secondo di un Paese piccolo e illiberale, resterebbe il terzo quale possibile volto dell’Europa dopo Draghi e Merkel. Ma può l’uomo dell’Eliseo calarsi in un ruolo del genere? Qualunque cosa ne pensi l’interessato, gli altri non sembrano riconoscergliene lo status. Resta impensabile per Merkel vedersi bocciare dall’Europarlamento un commissario designato, come accaduto a Macron questo mese con la francese Sylvie Goulard. Che abbia ragione o meno, nella sua intransigenza la Francia è isolata in Europa sui tempi da concedere per la Brexit. E il veto di Parigi all’avvio dei negoziati di adesione all’Unione di Albania e Macedonia del Nord — un atto potenzialmente destabilizzante per i Balcani — è stato interpretato da molti come un deliberato dispetto alla Germania, perché Berlino aveva insabbiato le proposte di Parigi sull’area euro. Non sembra certo un agire da leader riconosciuto. Nei giorni dell’uscita di Draghi, il paradosso è proprio qui: ora che nel mondo il potere individuale diventa sempre più efficace — Donald Trump, Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan, Xi Jinping, persino Boris Johnson — l’Europa resta senza volto. Non è detto che sia un male. Purché, almeno, esprima un potere collettivo.