In fondo ogni romanzo è un bilancio del passato e del presente di uno scrittore. Se descrive il futuro lo fa svuotando la sacca della sua vita, e da lì traccia solo qualche ipotesi. Quello che conta è quello che “è o è stato”. Antonio Bortoluzzi scrive la storia di Valentino disponendo, in fila, i pezzi della sua esistenza, dall’amico di sempre, Massimo, alla nuova fidanzata cinese, Yu, venuta da quel luogo che gli sta rubando la sua tranquillità economica.
Storia di persone e – molto – di luoghi, quella che si dipana “In come si fanno le cose”. Le montagne, anfiteatri di fatica, in passato, e oggi spazi agognati per costruire sogni che magari sono solo i titoli di una pubblicità. La fabbrica, spazio del fare, che ti toglie i sogni a lungo andare, senza che tu ne sia consapevole. Un buco in una parete che salva; un buco nel terreno che dovrebbe collegare la fabbrica alla montagna, la realtà ai sogni. Un romanzo in cui si mischiano rimandi a Primo Levi, oltre ad una bellissima citazione di “La chiave a stella” (credo che il titolo gli sarebbe molto piaciuto), a Mario Rigoni Stern, per la capacità che ha Bortoluzzi nel descrivere, in modo minuto, i contesti.
“Come si fanno le cose” è un’orazione civile al #lavoro per tutti quelli che hanno la responsabilità nel generarlo, ma è, soprattutto, un monito a quanto i Si e i No, che si compiono nello scegliere come disegnare il futuro della propria vita, sono quelli che fanno la differenza. Valentino sceglie il No, e lo fa guardandosi indietro. Un romanzo mai urlato, delicato, sapiente. Un libro che traccia un rendiconto dell’ultimo ‘900 e consegna intatte ai nostri tempi le questioni importanti della vita, quali ad esempio il lavoro.