Draghi è certamente il “salvatore” dell’euro, una figura di grande rilievo nel panorama di un’Europa in cerca di guida, ma anche un personaggio complesso, che suscita giudizi spesso divergenti.
C’è chi ne ha sottolineato l’imperscrutabilità con un ritratto fulminante: «Non sai mai cosa pensi dietro quella faccia da poker», e c’è chi lo ha paragonato a quegli ufficiali di stato maggiore «intelligenti ma pigri e per questo adatti a incarichi di vertice».
All’inizio della sua esperienza alla BCE, «Bild», il più popolare e diffuso quotidiano tedesco, gli regalò un prezioso elmetto prussiano mostrando apprezzamento per il suo carattere poco italiano. Ma, dopo la sua performance alla guida della banca, ha pensato di chiederglielo indietro. Per alcuni economisti è un keynesiano liberal, come lo fu il suo maestro, Federico Caffè, per altri lo è stato, ma ora non più; per altri ancora è fondamentalmente un pragmatico segnato dalla sua educazione gesuita, un uomo d’azione che si serve di approcci analitici diversi per decidere.
Alcuni politici italiani, soprattutto dopo l’esplosione della crisi causata dal COVID-19, lo vorrebbero alla testa del governo o al Quirinale, gli anti-establishment lo considerano l’incarnazione vivente dei poteri forti, il rappresentante di una finanza internazionale cinica e rapace.
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