I dati sulla nostra economia pubblicati nelle settimane scorse sono stati leggermente migliori delle previsioni. La crescita dell’ultimo trimestre dell’anno scorso è stata negativa, ma leggermente meno rispetto alle prime stime. Soprattutto gli investimenti privati sono, se pure marginalmente, cresciuti: +0,3% rispetto al semestre precedente. E la produzione industriale in gennaio si è un po’ ripresa. Ciononostante la recessione iniziata alla fine del 2018 continuerà almeno per la prima parte dell’anno.
Ma potrebbe essere una recessione «leggera». Se lo sarà tutto dipenderà da due fattori. Innanzitutto da come si concluderà la «battaglia sui dazi» fra Europa e Stati Uniti. Se il presidente Trump, come ha minacciato, imporrà una tariffa sulle importazioni di automobili europee, il colpo di grazia all’industria manifatturiera tedesca trascinerebbe anche le nostre imprese che sono fra i maggiori sub-fornitori di quell’industria: addio recessione leggera. Su questo però temo non possiamo influire, nonostante la conclamata amicizia fra il nostro primo ministro e la Casa Bianca.
Il secondo fattore però dipende solo da noi. Affinché questa, al netto delle guerre commerciali, sia una recessione leggera è necessario invertire rapidamente i fattori domestici che sono all’origine del rallentamento. Rapidamente vuole dire nelle prossime settimane perché, se il rallentamento continua, ci vorranno poi molti mesi per invertire la tendenza negativa.
Che cosa può fare il governo in tempi tanto brevi?
Innanzitutto segnalare che crede nella crescita, spazzando via i dubbi sugli investimenti pubblici. Lo scontro sulla Tav al proposito è emblematico. Idem per i lacci e lacciuoli con cui il governo vorrebbe frenare la concorrenza (dagli Ncc, alle licenze degli stabilimenti balneari, alle farmacie, alla minaccia di chiusure obbligatorie la domenica). Rivedere poi alcune norme del Decreto dignità, almeno quelle che rendono più difficile, se non impossibile, rinnovare i contratti di lavoro a tempo determinato. E infine, ed è la cosa più importante, anticipare la definizione del quadro macroeconomico del prossimo Documento di economia e finanza (Def).
Le misure
Lo spread sui nostri titoli pubblici (che dal maggio scorso frena l’economia, imponendo un maggior costo a tutte le imprese che per lavorare hanno bisogno di linee di credito bancarie) non scenderà finché gli investitori non capiscono come il governo intende impostare i conti pubblici per il prossimo anno. Le misure annunciate dalla Bce possono dare sollievo. Ma non possono risolvere i nostri problemi strutturali.
Solo l’aumento dell’Iva che scatterebbe in caso di non tenuta dei conti, vale 23 miliardi. E questa non è la solita storia che si ripete da anni perché il buco da cui partiamo (risultato di spese decise rimandandone la copertura) è circa il doppio di quello che questo governo ereditò da Gentiloni. Vuole dire che un pezzo del governo deve vendere l’anima ai mercati? O perlomeno tenerne in conto umori e indicazioni? Potrà spiacere dirlo, ma la risposta è sì. Altrimenti gli italiani non solo riterranno questo governo responsabile di averci portato in recessione, soli in Europa ad esserci entrati. Ma responsabili anche, quando si è aperto uno spiraglio che forse ci avrebbe permesso di uscirne non troppo ammaccati, di averlo chiuso.
L’Economia, 15 Marzo 2019