È il patrimonio netto aggregato delle mille imprese che in Italia non si arrendono, quelle che non hanno debiti e reinvestono gli utili. È questa la base da cui partire per superare la crisi economica innescata dal Covid-19 Sono aziende che ora sentono il rallentamento, ma cercano di soddisfare la domanda nonostante le difficoltà Hanno un compito: continuare a trainare il Paese, come fecero dopo la Grande Recessione
Ecco i loro risultati e le loro storie. Come quella dei fratelli Colosio o di Giuseppe Ferro (La Molisana)
Ce lo siamo chiesti, qui in redazione: ha senso parlare di aziende Champions in questi giorni, con l’Italia chiusa per virus e l’economia mondiale appena all’inizio di uno choc sulla cui durata non c’è chi possa azzardare previsioni? Soprattutto: serve, ragionare su conti record, sì, ma che forzatamente fotografano la situazione solo fino al 2018 e, sebbene il 2019 abbia spesso confermato il trend, il 2020 ha già presentato anche a loro – i Campioni – la versione «di bilancio» del drammatico conto medico-sanitario?
Li abbiamo sentiti e li sentiamo, quegli imprenditori. A decine, dall’inizio della crisi, provvedimento dopo provvedimento. Nessuno ha mai minimizzato l’impatto, nemmeno per i loro gruppi: per qualcuno è molto forte già ora, già così, per altri lo sarà un po’ meno. Tutti hanno non solo applicato da subito le misure di sicurezza richieste: spesso hanno anticipato i decreti del governo. E tutti sono sopra ogni altra cosa convinti, ma convinti davvero: «Supereremo anche il coronavirus. Ripartiremo».
Le basi per ripartire
La motivazione è assolutamente razionale. Sta in quei bilanci 2018 che sembrano sorpassati, ma certificano le ragioni del controllato ottimismo. I Champions, usciti più forti persino dalla Grande Recessione, fino all’anno scorso hanno continuato a crescere e guadagnare. Gli utili (ricchi) li hanno sempre reinvestiti. Non hanno debiti e, con un patrimonio netto complessivo vicino ai 47 miliardi, la loro solidità è indiscutibile. Perciò: sì, ha senso andare a vedere da quale base partano per affrontare la crisi i migliori piccoli e medi imprenditori d’Italia, su quali «forze proprie» poggi la loro convinzione di poter tener botta oggi, tornare a crescere domani (o dopo), contribuire a trainare al Paese esattamente come accadde post crisi 2008-2012.
Le tabelle che riassumono il quadro sono nelle pagine seguenti, con i principali dati di ciascuno dei Mille Champions 2020 individuati dalla terza analisi dell’«universo Pmi» condotta da ItalyPost per L’Economia. Possono essere usate come punto di partenza. Il resto, cioè le conversazioni di queste settimane con i «Campioni», non serve solo a monitorare la crisi quasi day by day: aiuta a mettersi in «modalità prospettiva».
Certo, ci sono settori per i quali quel che è perso è perso, per i nostri Top come per aziende meno attrezzate. Nunzio Colella, l’amministratore delegato del gruppo Capri (abbigliamento, marchi Alcott e Gutteridge, 250 milioni di fatturato e un patrimonio netto di 126), è stato tra i primi ad annunciare la chiusura di tutti i suoi negozi perché «sento di avere una responsabilità». Come tantissimi altri signori dello shopping, grandi o piccoli non importa, non ha aspettato il decreto di Palazzo Chigi: a farlo decidere sono bastati i timori dei clienti (sempre meno, dappertutto) e dei dipendenti (divisi, ovunque, tra la paura del contagio e quella di perdere il posto di lavoro). Per chiunque abbia attività nel turismo l’impatto è chiaramente peggiore: un disastro. Idem, spesso, nel campo dei servizi.
La manifattura che va
Poi però c’è sempre il manifatturiero. È a quello che si è sempre aggrappata l’economia del Paese, è da lì che arriva una buona fetta di Pil e occupazione e quasi tutta la nostra Ricerca & Sviluppo, è lì che anche in condizioni normali ci giochiamo la recessione o la ripresa. Se si ferma l’industria, si ferma (non solo ora) l’Italia. Se va, ci traina.
Il rallentamento, a volte il vero e proprio stop di queste settimane sarà un danno, enorme. Ma il fatto stesso che siano state molte imprese ad auto-imporsi limitazioni, in attesa dei provvedimenti del governo, dimostra che è uno stop per poter ripartire prima che davvero sia troppo tardi. Il problema oggi, per loro, è riuscire a soddisfare la domanda, per non perdere ordini e dunque clienti? Ci riescono, almeno fin qui e nonostante le mille difficoltà.
Alla Colosio, per dire, la prima cosa è stata applicare rigidamente le misure di sicurezza. Non è stato necessario chiudere né fermare del tutto la produzione (roba hard: macchinari per la pressofusione). Chiaro: anche a Botticino, provincia di Brescia, gli ordini sono rallentati. Ma ne è appena arrivato uno dal Brasile, per esempio. Emanuela, che oggi guida con il fratello Davide l’azienda fondata dal padre, la mette così: «Papà ci ha insegnato che, per quanto brutta possa essere la situazione, e questa è certamente tra le peggiori, il mondo non si ferma. Non sappiamo se sarà tra un mese, tra due, tra un anno. Ma ripartirà, anche questa volta». I fratelli Colosio e i loro dipendenti – «Devo ringraziarli uno per uno, per la loro responsabilità» – perciò si preparano. Come hanno fatto durante la Grande Recessione. Sono piccoli, ma super: 30 milioni di giro d’affari (raddoppiato in sei anni), 50% di export, 33% di redditività industriale, 25 milioni di patrimonio netto.
È evidente, che imprese come questa hanno tutto in regola per reggere l’emergenza e preparare la ripartenza. Il che non significa minimizzare il colpo per il Paese. Giuseppe Ferro, amministratore di quella Molisana che, producendo pasta, continua a vedere i suoi prodotti sparire dagli scaffali dei negozi, non ci gira intorno: «Su una scala da zero a dieci, il danno economico per l’Italia sarà a quota otto. Però sono convinto: saremo in grado di rimettere il piede sull’acceleratore e ricominciare a correre». Da Campobasso loro, passati dai 46 milioni di fatturato 2012 ai 130 del 2019, lo facevano anche senza bisogno di assalti isterici ai supermercati.