Il più grande è il gruppo Il Belvedere, 262 milioni di fatturato: un costume da bagno su cinque, al mondo, è fatto con i «tessuti indemagliabili a catena» che le aziende della holding lombarda vendono ai big brand dello sportswear globale, e non solo per il nuoto. Il più piccolo (per ora) è il Lanificio Zignone: dietro ai suoi 37 milioni di ricavi, però, ci sono per esempio il primo brevetto mondiale di una «pura lana» a prova di lavatrice e la prima collezione (di nuovo: al mondo) con la «patente» Gots, ovvero Global Organic Textile Standard, la più importante certificazione di rispetto delle norme etico-ambientali nella produzione di fibre organiche.
Paradigma green
Questo per dire che non importano le dimensioni. Anzi, pro-prio perché tra i trenta Champions del Sistema Moda – terza tappa del viaggio de L’Economia e ItalyPost tra i campioni dei nostri settori d’eccellenza – il lanificio biellese doc è il più piccolo, è anche quello che meglio aiuta a raccontare il nuovo paradigma del successo nei territori del lusso (e oltre). In piena green era, neppure ai signori dello stile è più sufficiente essere una griffe, tessere splendide stoffe o creare abiti, scarpe, accessori straordinari. Se così fosse, non avremmo problemi: i maestri indiscussi siamo noi, è qui che i colossi mondiali vengono a fare shopping di marchi e competenze e, quando non è un’acquisizione quel che cercano, è sempre qui che comprano i loro tessuti, trovano le migliori lavorazioni, si assicurano le massime espressioni di eleganza e qualità. È l’essenza del made in Italy, di cui l’industria della moda è il primo ambasciatore. Però ha dovuto aggiungere, al linguaggio che le consente di essere riconosciuta come il top assoluto del «bello», la grammatica della sostenibilità.
Possiamo pensare che sia solo una questione di marketing (non lo è). Che, per i ricchi del mondo, «verde» sia soltanto un aggettivo che oggi fa cool, domani chissà (non si può mai dire). Oppure ancora che, per queste e per mille altre ragioni, l’attenzione all’ambiente e a ogni altra forme di sostenibilità sia presunta, apparente, finta: la maschera nuova di un vecchio business. Non è così. È vero, non tutti sono imprenditori illuminati: per uno che ci crede sul serio, almeno un altro si limita – appunto – a fingere. Ma in fondo cambia poco. Essere ecocompatibili è oggi una condizione obbligata di competitività, uno di quei fattori immateriali del successo di cui è impossibile misurare gli effetti positivi, ma facilissimo pesarne l’assenza. Equivale a scivolare lentamente ai margini del mercato.
È un rischio che non corrono i trenta Campioni del Sistema Moda, selezionati dall’Ufficio Studi di ItalyPost dopo l’analisi di sei anni di bilanci di tutte le piccole-medie aziende a proprietà italiana. La svolta green l’hanno capita per tempo. Spesso l’hanno anticipata. Sono Champions anche per questo e, benché nemmeno loro sappiano quantificarne il peso, sono certi che le loro performance di crescita riflettano le relative scelte. Quel che è sicuro è che anche qui, come già nella meccanica e nella chimica-farmaceutica (a cui abbiamo dedicato le prime due puntate del nostro reportage tra i comparti chiave dell’economia nazionale) e nell’agro-alimentare (sarà la prossima tappa), i risultati sono molto, molto al di sopra delle pur buone medie settoriali.
Che cos’è, che fa la differenza? Venerdì prossimo, in Bocconi, lo racconteranno direttamente loro. Non c’è dubbio però che uno dei segreti sia l’aver saputo anticipare la sfida della sostenibilità. Non se ne parla molto, ma l’industria della moda è uno dei settori più inquinanti al mondo, responsabile (per esempio) dell’8-10% delle emissioni globali di gas serra e del 20% dell’inquinamento delle acque di scarico industriali. Solo che, se ieri all’ambiente badavano in pochi, oggi è per tutti un must. E infatti non c’è grande marchio che non insegua l’obiettivo di stampigliare etichette con su scritto qual cosa tipo «cento per cento ecocompatibile». Per poterlo fare, devono essere certi che l’intera filiera si muova nella stessa direzione. Molti dei nostri Champions sono tali perché, anche quando sono «semplici» fornitori, erano pronti prima che glielo chiedessero.
Reputazione
Dal Sistema Moda, fatto di 66 mila imprese (solo 163 delle quali oltre i cento milioni di giro d’affari, certifica Mediobanca), il Paese ricava 95,5 miliardi di fatturato complessivo. I due terzi arrivano dall’estero, con un grosso contributo alla nostra bilancia commerciale: attivo di 28 miliardi. Solo la meccanica fa meglio, quanto a contributo a Pil e occupazione (quasi 600 mila posti di lavoro), e insieme sono la sintesi della miglior «reputazione Italia»: tecnologia e creatività, tradizione e innovazione, abilità artigianali e manifattura d’avanguardia.
Dopodiché, anche qui, c’è chi corre a dispetto dei trend economici e chi (big inclusi) invece arretra o non tiene il passo. Moda, tessile, calzaturiero e tutto l’universo degli accessori sono stati, negli ultimi quattro anni, protagonisti della ripresa, con una crescita di oltre il 10% che ha trainato un ampio indotto. Quest’anno non andrà così bene: il rischio che compaia il segno «meno» è concreto. Ci sono in ogni caso due velocità, ed è evidente nel confronto tra i bilanci 20122018 dei Champions e le performance del settore nello stesso periodo. I Champions sono cresciuti in media del 10,8% l’anno, il settore non è andato oltre il 3,4%. I primi hanno realizzato utili industriali pari al 15,2% del fatturato (sempre in media annua), il comparto si è fermato all’8,3% (comunque invidiabile).
*L’Economia, 18 novembre 2019