Questa è una storia che parte da un piccolo paese sconosciuto, di una valle forse ancor più sconosciuta, e arriva in ogni angolo del mondo. Macao, per esempio. Novembre 2018. Il Gran Premio di Formula 3 non è roba da audience globale, ma quella domenica non c’è Tv che non mandi in onda le immagini. Un missile decolla a 200 all’ora, vola contro le barriere, si schianta. Nessuno pensa che Sophia Floersch, 17 anni, pilota tedesca, possa uscirne viva. Invece. Ha una frattura spinale, subirà un primo intervento di undici ore, ma è lei stessa a twittare, subito: «Sto bene». E poi, dopo l’operazione: «Tornerò. Devo ringraziare Dallara: ha costruito un grande telaio» .
Anche queste parole fanno il giro del mondo. Varano de’ Melegari, Parma, borgo da 2.700 abitanti nella Val Ceno, si appunta l’ennesimo attestato di eccellenza assoluta dell’automotive (e non solo). Certamente: quella di Gian Paolo Dallara e dell’azienda che mai avrebbe fatto nascere in un posto diverso dal paesino in cui è nato lui è un avvincente romanzo di corse, velocità, bolidi da competizione. In qualche modo è però anche il simbolo delle trame scritte da ciascuno degli altri piccoli-grandi campioni dell’imprenditoria italiana, in altri comuni altrettanto invisibili sulle carte geografiche. Mescola artigianato e innovazione, genio e precisione senza sgarri, legami fortissimi con il territorio e, insieme, dna da globetrotter. Vive in fabbriche e laboratori da cui possono uscire supercar oppure «soltanto» supervini, farmaci o alta moda o gioielli della meccatronica.
Non fa differenza «cosa», la ricetta di base è la stessa. Ovunque e in modo particolare lì, nella regione delle Dallara e delle Ferrari, naturalmente, delle Lamborghini, Maserati, Ducati o — giusto per citare un paio di altri Champions 2019 — Pagani Automobili e Autocarrozzeria Imperiale.
E però, appunto: Emilia Romagna non è sinonimo solo di Motor Valley. O di Food Valley. Negli anni della Grande Crisi post Lehman ha saputo reinventare la sua vecchia eccellenza di distretto delle piastrelle, inventare un polo del packaging e svilupparne uno biomedicale partito dai classici garage . Ha fatto tutto così bene da diventare la regione italiana con il più alto tasso di crescita e da proiettare la sua «capitale», Bologna, ai vertici del nuovo triangolo industriale. Prima c’era Torino, con Milano e Venezia. Da un pezzo il Piemonte non più trainato da Fca è molto, molto lontano dalla «sorpresa Emilia». Che poi, «sorpresa». All’Italia che vede crollare la produzione e teme una seconda Grande Crisi, senza neppure aver avuto il tempo di recuperare la precedente, il modello emiliano potrebbe dare un’idea chiara di come si fa, a creare sviluppo e ricchezza persino a partire dalla peggior recessione mai vista.
La storia di Dallara è in fondo un po’ un condensato. Gian Paolo, l’animal spirit che l’ha fondata, a 82 anni è ancora in azienda (e, come gli altri Champions della classifica L’Economia-ItalyPost, in azienda reinveste tutto quel che guadagna). Non fa il padre-padrone. E ci ha pensato per tempo, alla managerializzazione: sono dodici anni che in prima linea, come amministratore delegato, c’è l’uomo che fino a quel momento guidava Ibm Italia. Tra la grande multinazionale e la sfida della minuscola (allora) fabbrica-officina di Varano, Andrea Pontremoli non ha avuto dubbi, anche se qualcuno gli dava del matto.
Il risultato lo raccontano i bilanci (vedi box sotto la foto, ndr). Dietro, non c’è l’eccellenza solo di un’azienda. Se qualcosa di diverso si trova, tra i Champions emiliani, è che l’eccellenza è «di sistema». Questo è un Paese in cui tutti parlano di «gioco di squadra». Qui lo fanno, direttamente. Pontremoli, per dire, dirige un Master all’Università di Bologna, è nel board dell’Università di Parma, presiede la Motorvehicole University of Emilia-Romagna. Che non è il nome pomposo di un’iniziativa qualsiasi, è l’associazione voluta dalla Regione per unire il know-how delle Ferrari, Lamborghini, Dallara eccetera e quello degli atenei del territorio. Dove peraltro parecchi di questi imprenditori e manager fanno quel che fa Pontremoli: insegnano.
Funziona al punto che — lo racconta lo stesso Pontremoli, fresco di tour «dedicato» negli Usa — questo rischia seriamente «di diventare un polo d’attrazione internazionale per i futuri ingegneri dell’automotive». O del food, visto che lo «schema Muner» è stato intanto replicato nell’alimentare. E siamo alle parole-chiave: sistema, formazione, territorio. L’alleanza pubblico-privato inizia a partire «dalla formazione, perché per tutti noi il futuro è lì», la loro parte la fanno tanto le grandi quanto le piccole aziende, la rete che ne risulta è quel consente i ritmi di crescita tedeschi della Corporate Emilia. Che però è, anche, una corporate «sociale». Qui, come nelle Marche e in Umbria, «responsabilità dell’imprenditore» non è uno slogan per farsi belli ai convegni. È una realtà, diffusa. E un fattore di successo. Sarebbe il caso di non liquidarla con tanta snobistica fretta.