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L’unica eccezione consentita è per sedute e gambe perché, è risaputo, il polo italiano della sedia è in Friuli Venezia Giulia. Per la realizzazione di ogni altro complemento d’arredo, vige la regola di non uscire dal raggio di 10 chilometri: Giorgio Cattelan, da quarant’anni al timone dell’omonimo impero del mobile, si affida esclusivamente al patrimonio artigiano di casa sua, a Vicenza. È qui che, nel 1979, ha avviato il percorso di trasformazione della falegnameria del padre, oggi diventata un’azienda che, senza conoscere battute d’arresto, è arrivata a fatturare 80 milioni di euro.
«Ci sono stati alti e bassi – ammette il fondatore di Cattelan Italia – ma nemmeno durante l’ultima grande crisi abbiamo perso mercato. La nostra fortuna è di essere presenti in molte piazze del mondo, per la precisione in 240 Paesi. Non a caso l’80% degli affari arriva dall’export».
Sì, l’Italia è fatta anche di fabbriche che non si sono piegate alla recessione dello scorso decennio e che, al contrario, negli anni più incerti sono cresciute. Oggi, sabato 9 giugno, alle 18, in Piazza Chilesotti a Thiene, Make in Italy porterà l’imprenditore berico Cattelan sul palco del talk «Le filiere dei champions, i champions in filiera», insieme ai professori Franco Mosconi, titolare della cattedra di Economia Industriale all’Università di Parma, e Giovanni Costa, docente emerito di Strategia d’impresa all’Università di Padova, per un confronto moderato dall’inviato speciale del Corriere della Sera Raffaella Polato.
La Cattelan è stata inserita tra le 500 aziende «Champions» emerse dall’analisi del centro studi ItalyPost, promossa per rintracciare quelle eccellenze spesso sconosciute che rappresentano il volto più solido dell’Italia. Sono imprese che, dal 2010 al 2016, si sono mantenute tra i 20 e i 120 milioni di fatturato, continuando a realizzare utili e a creare posti di lavoro. Tra gli obiettivi del panel, capire quali sono i comuni denominatori che fanno di queste realtà i «campioni» del Paese.
«Diverse indagini empiriche si concentrano su due caratteristiche ricorrenti – evidenzia il professor Mosconi -: uno sforzo deciso per innalzare i livelli di ricerca e sviluppo e, più in generale, di innovazione. E un altrettanto deciso sforzo verso una crescente internazionalizzazione, intesa non solo come più export ma anche come maggiori investimenti diretti esteri perché, nella globalizzazione del nostro tempo, girano non solo prodotti ma anche fabbriche. Quando i nostri imprenditori investono nel mondo ampliano la propria filiera di riferimento, partendo dal loro territorio d’origine, il quartier generale di queste multinazionali tascabili. L’inserimento poi di tante nostre PMI nelle cosiddette catene globali del valore come fornitori specializzati, penso ad esempio al settore delle costruzioni, è un altro modo con cui i nostri distretti partecipano a pieno titolo al grande gioco dell’economia globale».
Il concetto di filiera estesa, che parte da un legame saldo con i luoghi di appartenenza ma che deve necessariamente guardare lontano, è ripreso da Giovanni Costa: «La filiera è quel che oggi deve sostituire il distretto, inteso come area geografica che produce eccellenza – sostiene il professore padovano – ma rimane un contenitore inutile se non trova sbocchi. La semplice esportazione non basta più: crea profitto chi è attrezzato alla multilocalizzazione, cioè allunga il proprio raggio d’azione portando su nuovi mercati le proprie merci che, grazie alla tecnologia, diventano riproducibili altrove. È significativo il caso di Garmont, azienda trevigiana produttrice di scarpe tecniche di qualità. Grazie alla joint venture con un fondo d’investimento statunitense oggi realizza negli Usa gli scarponi dell’esercito americano».
*Corriere del Veneto, 5 giugno 2017