Saluti ai vecchi schemi: non valgono più. Nemmeno per le piccole e medie imprese. Siamo ancora il Paese dei distretti, per esempio, e probabilmente lo saremo sempre. È nel dna italiano, sta al nostro sistema produttivo come l’epoca dei Comuni sta alla nostra storia collettiva. Poi sì, a un certo punto è arrivata la Grande Crisi globale e ha colpito duro proprio a partire da lì: dalle aziende che avevano appena fatto il salto a una dimensione non più strettamente artigianale; dai territori che quelle stesse aziende, messe tutte insieme, avevano trasformato in sinonimi di leadership in questa o quella produzione. La Brianza e i mobili, per dire. Sassuolo e le piastrelle. Il Friuli Venezia Giulia e le sedie (prima, molto prima del prosecco). E giù così per la Penisola, seguendo strade via via meno affollate di capannoni, magari non ipertecnologiche, ma che comunque rispondevano alle «tre effe» del made in Italy di successo: Fashion-Food-Furniture, quel triangolo modacibo-mobili che da solo vale – dicono – l’80% della produzione nazionale.
Cambio di scenario
Okay. Quel che negli anni della recessione si è visto chiaramente sono le aziende che sparivano, i poli un tempo d’eccellenza spazzati via per intero. Quello che invece ai riflettori è spesso sfuggito – e una delle ragioni è banale: i riflettori, ai «piccoli» vincenti di oggi, non interessano – è che intanto più di qualcuno, da altre parti, inventava nuovi business e reinventava i vecchi, ridisegnava modelli, dava il via a una disruption non diversa da quella con cui sono alle prese i massimi sistemi.
I «500 Champions» che L’Economia e ItalyPost hanno individuato alla fine del viaggio tra le oltre 14 mila piccole e medie imprese italiane raccontano anche questo. È sufficiente andare oltre i numeri aggregati, che il rimescolamento di carte fatalmente lo nascondono: non è inaspettato che quasi l’80% delle aziende top performer, quelle che persino nel picco della crisi sono cresciute a ritmi record e ancor più hanno guadagnato, sia distribuito tra il Nord Ovest (40,6%) e il Nord Est (30,8%). Lo sappiamo, che la Lombardia è la prima regione manifatturiera del Paese: e dunque non sorprende che anche tra i 500 Champions le sue Pmi siano largamente la squadra di testa (28,4%, Veneto secondo con un distaccatissimo 19,8%). Stesso discorso per il CentroSud: togliamo Toscana ed Emilia, scendiamo da Lazio in giù, e pur se si incontrano altre realtà insospettate il «tasso di championship» si abbassa e il divario risulta – qui sì – ulteriormente allargato dalla crisi.
Eppure. È vero, se si fa un giro nella Brianza che fu il regno dei piccoli mobilifici d’alta qualità (oltre che dei big del design), non ci si ritrova. In troppi hanno pensato di poter contrastare la crisi inseguendo il modello Ikea e portando la produzione in Cina. Il risultato è che proprio i cinesi li hanno puniti, perché i nuovi ricchi del Celeste Impero da noi volevano lusso, brand, qualità, l’abilità artigianale che non ha eguali al mondo: le brutte copie a basso prezzo fatte produrre a casa loro potevamo tenercele, e auguri per la concorrenza a Ikea (persa in partenza). Idem se si prende la macchina e si va a Manzano, Udine. La sedia gigante (20 metri d’altezza) che dava il benvenuto nel distretto leader mondiale delle «sedute» non esiste più, è definitivamente crollata un anno fa: distrutta da una tempesta atmosferica come, prima, la tempesta dei mercati aveva distrutto capannoni, fabbriche, l’età dell’oro di quell’intera economia.
La forza
Serve, ricordare cos’è accaduto, per capire la forza dei 500 sconosciuti Champions che invece, in quegli stessi anni, costruivano la crescita per sé e un ponte per lo sviluppo cui è ora tornato il Paese. Più o meno a metà strada tra la Brianza e la provincia di Udine sta Carrè, Vicenza, terra di Piergiorgio Cattelan e dell’azienda che porta il nome di famiglia. Anche lui fa mobili. Ma lui, in Cina (e non solo), ha cercato clienti upper class, non produttori low cost. Morale: i 36 milioni di fatturato 2010 sono diventati quasi 60 nel 2016 e dovrebbero essere saliti a 80 nel 2017, l’Ebitda medio degli ultimi tre anni supera il 25%, il Roe (ovvero il ritorno sul capitale investito) 2016 è addirittura al 70%.
Il 40% delle 500 imprese ha la base nel Nordovest, segue il Nordest (38%). Al Centro e al Sud solo il 20%
Dopodiché. Se la forza dei 500 Champions sta nell’altissimo valore aggiunto, anche quando fanno solo farine, ognuno di loro a un certo punto dovrà affrontare il nodo del salto di dimensione.
È lo stesso, per fare un esempio su scala più ampia, che in questi anni ha cambiato la geografia di un altro distretto top: ma se non è vero che, con la vendita di Loro Piana a Lvmh, la «cashmere valley» tra Biella e Vercelli parla francese, lo si deve a posti come Valle Mosso e Strona. Il primo è il regno di Reda (vedi box in pagina), il secondo del Lanificio Zignone.
Anche a loro, prima o poi, arriverà la classica «offerta irrinunciabile». Quindi: la questione è non giocarsele, queste eccellenze trasversali e spesso insospettate – il polo delle Pmi «aerospaziali» in Campania, per dire – che dalla Grande Crisi sono uscite persino più forti. Ma il problema non è dell’imprenditore che, eventualmente, cede a un maxi assegno. È del Paese.