Cervello in fuga e anima in lotta. Perché se una brillante carriera all’estero è ciò che spinge a partire, il risvolto della medaglia è altrettanto forte. E non si tratta solo della difficoltà di una vita sradicata dagli affetti, ma del vedersi negata la possibilità di un ritorno che dovrebbe essere tra gli obiettivi fondamentali di un Paese sviluppato. Lo hanno dimostrato sette under 35, quasi tutti laureati a Padova, che hanno espatriato per vedersi riconosciuti studi e competenze. L’occasione è stato l’incontro “Perché i giovani scappano dal nostro Paese” nell’ambito della Settimana della Scienza e della Tecnologia del Galileo Festival.
Partire e non tornare
Non una domanda, ma un’affermazione. E pensare che la fuga all’estero sia il vero problema è del tutto errato. Uscire, fare esperienze, crearsi un bagaglio professionale e culturale è quanto di più utile un giovane possa fare. Ne sono convinti tutti i professionisti presenti. Il reale problema è il fatto che nessuno ritorni. I motivi sono noti, eppure persistono. Ad aggravare il quadro, rarissimi sono i “cervelli” che arrivano in Italia.
Pensare che un ricercatore del Nord Europa si trasferisca qui per intraprendere una carriera è pressoché impensabile. Eppure le università italiane hanno un’ottima base di partenza: «La formazione teorica è superiore alla maggior parte di quella delle università estere» spiega Cristina Pozzato, specializzata in finanza che lavora a Copenhagen, «però mancano responsabilizzazione e opportunità concrete».le opportunitàLe fanno eco la ricercatrice in campo biomedico ad Harvard Tiziana Sanavia e l’ingegnere Lorenzo Danese: «Un neo assunto in Italia viene cristallizzato in una mansione e non ha l’opportunità di crescere, anche sbagliando». Ben diversa la situazione all’estero, dove la multidisciplinarità è la regola. La capacità di adattamento e di risolvere problemi imprevisti è estremamente apprezzata, come fondamentale è formarsi in ambiti diversi.
Lo conferma Alessandro Mistretta, l’unico tornato a lavorare in Italia che all’Ingegneria ha unito studi sulla Business administration, come pure Eleonora Pilla che lavora per una start up a Oxford. A mancare è soprattutto una spinta all’internazionalizzazione, tanto nelle aziende quanto nell’università. Basti pensare che un ateneo di eccellenza come quello padovano conta appena un 3% di studenti stranieri, mentre in altri Pesi europei la percentuale è molto più alta. gli ostacoliQuelli che in Italia vengono vissuti come scogli insormontabili, oltre confine non vengono nemmeno percepiti come problemi: il mito del posto fisso come condizione inderogabile per la sicurezza economica, ad esempio, o per poter fare figli senza vedersi tagliati fuori. «Le operazioni vengono organizzate per consentire alle neo mamme di allattare» spiega Valeria Paradies, cardiologa a Rotterdam che come Lorenzo ha lasciato un contratto a tempo indeterminato in Italia. E gli stipendi? «Sono certo più alti» commenta Cristina, «ma commisurati al costo della vita. La differenza è che consentono di essere indipendenti». Quel che stupisce è che tutti facciano riferimento all’Italia come a “casa” e che, in fondo, il vero desiderio sia quello di poter tornare per contribuire alla reale crescita di un Paese che sembra non volerli. Beninteso, studiare e impegnarsi è indispensabile, ma non è tutto: «I buoni risultati servono, ma per sfondare bisogna metterci qualcosa in più» esorta Edoardo Simioni «trovate qualcosa che vi piace, dedicatevici anche oltre lo studio e non abbiate paura di osare».
*Il Mattino di Padova, 11 maggio 2019