Ognuno sa trarre dalle esperienze la lezione che meglio corrisponde alle proprie inclinazioni e alle proprie aspirazioni. Chiara Valerio, dalla sua esperienza di studiosa delle scienze matematiche, argomenta brillantemente in questo piccolo libro la convinzione che non solo La matematica è politica (Einaudi, 2020), ciò che già è sorprendente di per sé, ma, di più, che la matematica è politica democratica. Che l’autrice sia matematica risulta innanzitutto dalla sua vocazione scientifica. Come studiosa e docente di numeri e come risolutrice d’incognite, la passione per la sua materia traspare da ogni pagina; come cittadina responsabile verso la società, l’amore per la democrazia traspare lo stesso.
Soprattutto nella seconda parte del libro si trova una dichiarazione di fede politica attraverso alcuni principi fondamentali scritti nella Costituzione. Dunque, matematica e democrazia. Il contenuto del libro non è, però, una doppia dichiarazione, come se fosse dirsi vegetariana e democratica, oppure matematica e podista. L’intento è di mostrare l’esistenza di un condizionamento reciproco o, meglio, una implicazione reciproca: essere democratica perché matematica, oppure essere matematica e dunque democratica.
Questo intento è tanto più interessante quanto più si distacca dall’opinione comune. P.P. le Mercier de la Rivière, un esponente della corrente fisiocratica della seconda metà del ’700, aveva parlato delle «verità geometriche e, in genere, di tutte quelle che sono dimostrate per mezzo del calcolo». Le verità matematiche – diceva – non ammettono contestazione. La matematica, perciò, è la più “dispotica” delle scienze. Applicata alle politiche economiche dei prìncipi illuminati, poteva diventarne la base scientifica irresistibile, come incontestabili apparivano allora le leggi della fisica di Newton. Di fronte alle verità “calcolabili”, tutte le scienze diverse dalla matematica dovevano riconoscere d’essere chiacchiere e, di fronte alle politiche del “dispotismo legale” (cioè che adottava le leggi matematiche) tutte le altre politiche scadevano in opinabili ideologie.
Il primo obiettivo di Chiara Valerio è di contestare questa natura delle scienze matematiche e, per farlo, non si rivolge a teorie e dottrina, ma descrive il procedere delle conoscenze in questo ambito del sapere che è, sì, scientifico ma non dogmatico. La questione principale, nel senso che sta al principio, della conoscenza è il punto di vista. Diverse (e vivaci) pagine sono dedicate al quinto postulato di Euclide che tutti conosciamo dalla scuola e che, nella sua formulazione semplice, dice che, data una retta e un punto fuori della retta, da quel punto passa una sola parallela. Che cosa è questa affermazione: una verità, una conseguenza d’altre verità, una preferenza, un’ipotesi, un postulato come un altro?
Le conseguenze di queste domande sono enormi: sono niente di meno che la possibilità di costruire altre geometrie non euclidee, altrettanto rigorose e coerenti, come quelle che vanno sotto i nomi di Bolyai e Lobachevskij. Euclide forse ha ragione nello spazio limitato di un foglio piano su cui si tracciano segni; ma, se si assumesse la tridimensionalità dello spazio e la sua infinitezza e se il tempo non fosse quello in cui ci muoviamo disegnando su una pagina, non potremmo costruire geometrie altrettanto rigorose? Insomma, la questione è quella del “punto di vista” o, meglio, della molteplicità dei punti di vista. Da questo “punto di vista”, un’affinità con la democrazia effettivamente esiste. Non, però, con qualunque nozione di democrazia: non, per esempio, con il dispotismo democratico, secondo il quale chi ha vinto le elezioni ha il diritto di imporre d’autorità la sua verità. In altra occasione si è parlato di “democrazia critica”, una versione della democrazia sempre aperta a riconoscere l’esistenza di altri punti di vista, tutti discutibili, tutti aggiornabili o perfino da abbandonare, i quali ci possono aiutare a vedere i tanti lati delle cose e perfino costruire modelli di comprensione lontani da quelli abituali, con conseguenze sorprendenti.
“I tanti lati”: è tipico di ogni pensiero dispotico e antiscientifico il presupporre che le cose abbiano un lato solo e su questa visione semplice procedere linearmente per deduzioni che non lasciano spazio al dissenso.
Di questo complesso libro, scritto con leggerezza e ironia, ciò che forse ne rappresenta il nocciolo, come si dice oggi il “focus”, è la ricorrente parola “postura”: come ci si pone rispetto al proprio oggetto. Sintetizzo: sentirsi responsabili verso la “cosa”, piuttosto che verso il “chi”, cioè diffidare dell’autorità alimentata dal conformismo e aprirsi alle provocazioni intelligenti; essere disponibili al confronto, perché nessuno s’avvicina alla verità da solo e perché le proprie asserzioni sono verificabili da chiunque (forse, nelle matematiche, non proprio da chiunque, ma da tutti coloro che possiedono gli strumenti); partecipare a un complesso di regole come quelle di un linguaggio onesto che permette di comprendersi, l’uno con l’altro; respingere l’idea che ci sia qualcuno che ha ragione a priori. Naturalmente, non vale il “principio maggioritario” che è proprio della democrazia basata sul voto. Ma il procedere della matematica si svolge tra ipotesi, verifiche e cambi di strada quando la verifica è negativa. Sono atteggiamenti che appartengono a coloro che coltivano una certa idea del dubbio, nella scienza come nella politica: il dubbio “creativo” che spinge a problematizzare e sospinge verso un oltre.
Tutto ciò a me pare verosimile, forse però applicabile non solo alle matematiche, ma all’insieme delle attività umane, scientifiche, artistiche o politiche che siano. Scrivendo di natura politica, anzi politico-democratica, della matematica, Chiara Valerio vuol dirci che vi sono attività in cui quel carattere democratico è più accentuato che in altre, o forse che ve ne sono di quelle addirittura incompatibili per natura con la democrazia? Se sì, quali? Per esempio, la giurisprudenza? Tecnica e democrazia in che rapporto stanno? Oppure, tutte le attività creative possono essere e possono non essere affini all’etica democratica e tutto dipende, per l’appunto, dalla “postura” che si assume.
A prima vista, questa risposta sembra convincente: tutto può orientarsi alla democrazia, così come può servire il dispotismo. Ma è proprio così in ogni caso? Possiamo aspettarci dalla nostra Autrice riflessioni ulteriori, sulla linea che lei stessa ha aperto?