«Siamo molto preoccupati che quando il presidente cinese Xi visiterà Roma, l’Italia firmi la Belt and Road Initiative, perché legittimerebbe un progetto politico, inviando il messaggio sbagliato a Pechino».
L’amministrazione Trump usa un linguaggio molto diretto per recapitare questo avvertimento al nostro governo, aggiungendo che l’adesione alla Bri minerebbe la collaborazione tra le aziende americane e italiane, e «l’interoperatività della Nato», mettendo in sostanza a rischio la nostra funzionalità nell’Alleanza.
L’iniziativa per questo colloquio di background con «La Stampa» è stata presa dalla Casa Bianca. Due alti funzionari hanno spiegato nei dettagli le riserve dell’amministrazione: «L’Italia così si separa dal resto del G7, e consente alla Bri di penetrare in Europa nel momento sbagliato, perché lo sforzo cinese di condurre la sua diplomazia del debito non sta funzionando. Negli ultimi due anni abbiamo visto una preoccupante corrispondenza tra il finanziamento e lo sviluppo delle infrastrutture secondo il modello cinese, e i problemi emersi nei Paesi partecipanti, incluso l’aumento del debito insostenibile e l’inefficienza dei progetti. In molti casi, come Gibuti, Sri Lanka, Kenya, Pakistan, Venezuela, la Cina ha collateralizzato il debito impossessandosi di asset sovrani. Infine c’è stato anche un effetto deleterio sulla trasparenza, la corruzione, e la governance economica ed istituzionale».
Scelte geopolitiche
Quindi la Casa Bianca aggiunge: «L’Italia è un Paese del G7, uno degli alleati più stretti e di lunga data degli Usa. È un grande player economico e un brand globale. Firmando la Bri, darebbe il sostegno ufficiale a un approccio che sta avendo un impatto negativo sulla governance economica globale. Noi non abbiamo mai detto alle compagnie americane di non vendere i loro prodotti alla Bri, ma il timbro di approvazione di un governo legittimerebbe questo approccio allo sviluppo economico che è antitetico a quello del mercato e del settore privato». Il sottosegretario Geraci ha detto a «La Stampa» che la firma non avrebbe valore geopolitico. «È l’esatto opposto. Non c’è alcun significato economico, perché la Cina investirebbe comunque in Italia e in Europa. Ha bisogno di farlo perché sta perdendo soldi nei Paesi in via di sviluppo, e deve usare le sue riserve di moneta straniera. La motivazione è solo geopolitica. La ragione per cui vuole che l’Italia firmi è ottenere una vittoria politica per una iniziativa che sta perdendo legittimità ovunque, anche nella stessa Cina. Se possono farlo con un membro del G7, rompendo la solidarietà nella Ue e allontanando gli Usa dai loro alleati, tanto meglio». Geraci nota che hanno già firmato Portogallo, Grecia, Polonia e Ungheria: «La Grecia ci ha contattati, perché dopo l’acquisto del Pireo i cinesi ostacolano l’ingresso delle navi europee. Quanto alla Polonia e il patto economico “16+1”, Pechino cerca di entrare nei nuovi mercati europei per dividere Occidente e Oriente. Firmando ora l’Italia perderebbe il treno due volte: prima, perché non ha aderito subito, e ora perché lo fa quando Bri si sta dimostrando un imbroglio». Fonti di Intelligence dicono che il documento prevede anche di condividere il modello socialista cinese: «Non ci sorprenderebbe, perché la sua natura è politica, non economica». Ieri anche Garret Marquis assistente speciale del presidente ha twittato: «L’Italia è un’importante economia globale. Non serve che il governo dia legittimità al progetto di vanità cinese per le infrastrutture».
I rischi per la sicurezza
Gli Usa si oppongono anche all’uso di Huawei per costruire il sistema 5G, ma Roma chiede di chiarire i rischi per la sicurezza: «Primo, tutte le compagnie cinesi sono legate allo Stato e promuovono gli obiettivi del Partito comunista. Secondo, i servizi di Pechino sono tra gli attori più cattivi nella comunicazione cyber. Parleremo delle smoking gun, ma le prove esistenti sulle cattive azioni di Huawei dovrebbero bastare per scoraggiare qualunque economia e Paese che tenga alla propria sicurezza ad affidarsi a loro».
La firma di Bri avrebbe un impatto sui rapporti bilaterali: «Non ci sarà un downgrade, però noi vorremmo migliorare le relazioni economiche con l’Italia. Abbiamo appena parlato di allineare meglio gli acquisti per la Difesa, ma la firma di Bri potrebbe limitare la nostra capacità di investire. Abbiamo tante joint venture con compagnie italiane, civili e militari, come Leonardo, beni finiti, e componenti che vengono da entrambe le sponde dell’Atlantico. Se i cinesi penetreranno queste aree, c’è il rischio che ciò impedisca alle joint venture di approfondirsi. Sulla sicurezza poi siamo preoccupati dagli investimenti in tecnologia e infrastrutture critiche. Ciò può avere un impatto sulla interoperatività della Nato». Il governo però sta pensando di interrompere gli acquisti degli aerei F35: «Non è un prodotto americano o italiano, ma comune, e crea lavoro italiano». Se Roma rinunciasse a Bri, si porrebbe il problema di come compensare i mancati investimenti: «Non possiamo promettere che gli investitori americani correrebbero da voi, ma questo è il quadro generale». Infine «c’è un forte significato simbolico. Il club a cui l’Italia si unirebbe non è proprio augusto: Sri Lanka, Kenya, Pakistan, economie di tutto il mondo in difficoltà. Sarebbe un grave danno per la vostra reputazione globale».