Di luoghi comuni sulle donne, infelicemente definite anche sesso debole, ce ne sono moltissimi. Uno dei più comuni vede le donne votate agli studi letterari e gli uomini a quelli scientifici. Si è scomodata persino la biologia, dando la colpa agli ormoni. E allora, parliamo di Maria Chiara Carrozza: ordinario di Bioingegneria Industriale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. La professoressa vanta un’intensa attività scientifica da sempre mirata all’aumento dell’autonomia e al miglioramento della qualità della vita: bioingegneria della riabilitazione, mani artificiali, protesi cibernetiche, sistemi per il recupero e il ripristino delle capacità sensoriali e motorie.
Di robotica ha trattato il suo intervento a Trieste Next, dal titolo «Viva la robolution: come i robot influenzeranno il mondo del lavoro», tenutosi venerdì 28 settembre alle ore 21.30 al Teatro Miela. Il dialogo tra a professoressa e Maurizio Fermeglia, rettore Università di Trieste è stato condotto da Giovanni Tomasin, giornalista de “Il Piccolo”.
Anche una super donna come lei, ha deciso di porsi dei limiti.
Sì certo, perché ritengo molto importante non farsi travolgere dagli impegni e dare il giusto spazio anche al riposo. L’impegno politico, che ho abbandonato, è stata la responsabilità che mi ha tenuta più lontano dalla famiglia. È stata faticosa anche l’esposizione mediatica dalla quale ho cercato di proteggere la mia famiglia. La politica è un mondo staccato dagli altri e comporta un sacrificio personale molto forte. I figli e la famiglia, invece, ti fanno stare con i piedi per terra, ti costringono alla concretezza. Ho lasciato perché ho un forte desiderio di rispondere alla mia missione di ricercatrice.
Lei è stata Ministro dell’Istruzione, ha due figli e si occupa di robotica. Non crede che i nativi digitali siano… un po’ troppo digitali?
I miei figli sono già adulti e si sentono più grandi dei nativi digitali, in questo senso l’evoluzione si nota, perché non sono nati con iPad o touch screen. Il punto essenziale è la moderazione. Noi introduciamo molta tecnologia. È colpa nostra se sembrano squilibrati poiché abbiamo troppo delegato alla tecnologia le funzioni didattiche. È una questione di buonsenso e equilibrio nella gestione della necessità di renderli capaci di usare la tecnologia senza abusarne.
A proposito del suo ambito di ricerca, i robot, si può parlare di problemi relativi alla “disumanizzazione” dei rapporti?
Da scienziata, penso esattamente l’opposto. Dobbiamo affrontare i pregiudizi! Utilizzare una macchina non comporta la disumanizzazione. Pensiamo alla somministrazione di terapie ripetute, al rilascio in maniera controllata dei farmaci. Se non lo fa il terapista, c’è più tempo per stare vicino al paziente. I robot aiutano a salire le scale, i disabili a usare l’aereo, migliorano la vita. La tecnologia fa sentire più e non meno umani. I robot sono strumenti per migliorare l’umanità.
Esiste il problema della sostenibilità della robotica e quali possono essere le iniziative per affrontarlo?
Se si parla di robotica come supporto alla somministrazione di terapie riabilitativa, del recupero motorio, c’è un costo abbastanza elevato che la scienza deve porsi. Bisogna sostenere l’industria italiana a vendere e produrre questi robot, che non possono essere appannaggio solo delle multinazionali rapaci. Poi, va favorito il sistema sanitario con creazioni di reti e ospedali che abbiano massa critica sufficiente.
*Il Piccolo, 28 settembre 2018