Dopo un fine settimana di calcoli e di interlocuzioni informali con Bruxelles, sul caso Carige scende in campo direttamente il governo. E lo fa con il primo decreto legge “salva-banche” dell’era gialloverde, che prospetta la garanzia statale sulle nuove emissioni di strumenti di liquidità seguendo la stessa strada percorsa due anni fa per Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Ma nel provvedimento ci sono anche le garanzie sui finanziamenti straordinari erogati da Bankitalia/Bce (il cosiddetto Ela, Emergency liquidity assistance), altro strumento previsto a suo tempo per le altre banche in crisi. E, soprattutto, la possibilità di mettere sul piatto un intervento del Tesoro nel capitale della Cassa di risparmio, come avvenuto per Mps: strumento da prospettare come ombrello di ultima istanza in caso se il tentativo di rimettere in carreggiata la Cassa di risparmio di Genova e Imperia non dovesse andare a buon fine. E che si è reso opportuno dopo gli esiti negativi degli stress test.
Il decreto è arrivato in un consiglio dei ministri convocato ieri sera, al termine di una lunga giornata che aveva visto Innocenzi, Modiano e Lener, i “neo-commissari” nominati dalla vigilanza Bce, incontrare prima il ministro dell’Economia Tria e poi i vertici del Fondo interbancario di tutela dei depositi. Al vertice in Via XX Settembre ha partecipato anche Alessandro Rivera, nella doppia veste di direttore generale del Tesoro e di presidente della Sga, la ex società di recupero crediti del Banco di Napoli rilevata nel 2016 dal ministero dell’Economia. E proprio la Sga, in un altro parallelismo con la vicenda delle due banche venete, potrebbe avere un ruolo chiave nella gestione di un pacchetto da almeno 2,8 miliardi di Npl.
L’intervento pubblico, che rimette mano agli stessi strumenti utilizzati per le crisi bancarie di due anni fa e va in direzione opposta alle parole d’ordine sullo «stop ai soldi pubblici alle banche» portate avanti dal governo fino alla manovra approvata a fine anno, si è fatto largo sui tavoli di una maggioranza recalcitrante soprattutto in area M5S per i crescenti problemi di liquidità dell’istituto genovese. In una china resa ancor più scivolosa dall’ipotesi, circolata sul mercato, di un possibile downgrade da parte di alcune agenzie di rating, tra cui Moody’s e Fitch. L’ombrello statale, nell’ottica di Palazzo Chigi, serve ad accompagnare su binari più solidi il compito dei commissari chiamati a rimettere in sesto la banca per accompagnarla a una fusione con un altro istituto che sembra una strada inevitabile. In caso di necessità, però, tornerebbe in scena la «ricapitalizzazione precauzionale» già sperimentata da Mps e tentata senza successo per Veneto Banca e Popolare di Vicenza. La ricapitalizzazione con la mano del Tesoro avverrebbe su richiesta di Genova, e potrebbe assorbire una fetta della quota inutilizzata del fondo da 20 miliardi creato dal decreto Gentiloni di fine 2016. Una mossa, questa, che inciderebbe sul debito pubblico.
Nell’attesa che maturi il quadro, la mossa del governo nasce dalla «fragilità» della situazione di liquidità della banca ligure, descritta anche nella lettera inviata dalla Bce alla banca nei giorni scorsi in occasione della nomina dei tre Commissari straordinari. Nella lettera, Bce segnala che nonostante Carige abbia posto in essere «diverse misure di emergenza per la liquidità nel corso dei mesi scorsi per compensare deflussi», tali misure si sono dimostrate «insufficienti» a fornire una soluzione «stabile e sostenibile ai problemi di liquidità».
Le richieste al Fondo volontario
A ruota, dopo l’incontro al Mef, i commissari straordinari come detto hanno incontrato a Roma i vertici dello schema volontario del Fondo Interbancario di tutela dei depositi, rappresentati dal presidente Salvatore Maccarone. Oggetto del confronto era la rivisitazione delle condizioni relative al bond subordinato da 320 milioni che gran parte del sistema bancario, raggruppato sotto l’ombrello dello Schema volontario ha sottoscritto a dicembre. Il bond in teoria doveva essere rimborsato con i 400 milioni dell’aumento di capitale, ma tutto è sfumato a causa dell’astensione in assemblea da parte dell’azionista di maggioranza, la famiglia Malacalza. Quel bond, che doveva pagare una cedola annua del 13%, alla luce della venir meno dell’aumento e dell’aumento della rischiosità della banca, ora ha visto salire il suo rendimeno annuo al 16%, qualcosa come circa 50 milioni di euro l’anno. Un onere troppo grande da sostenere, per l’istituto ligure. Da qua il tentativo dei vertici della banca di ridefinire gli accordi: la richiesta avanzata dai commissari è stata quella di un sostanziale dimezzamento del tasso (dal 16% all’8%) e di una parziale conversione del bond subordinato in una sorta di “finanziamento”, visto che andrebbe in una riserva in conto futuro aumento di capitale. Una modalità, questa, che salvaguarderebbe la famiglia Malacalza, che manterrebbe così inalterata la propria partecipazione oggi al 27,5%. Ma che, d’altra parte, certo non piacerebbe al sistema bancario, che si troverebbe così con un prestito a condizioni stravolte rispetto agli accordi iniziali. Peraltro una modifica ai termini del bond dovrebbe passare da una nuova assemblea dello schema volontario che dovrebbe essere riconvocata a stretto giro e con maggioranze elevate che rendono l’intero passaggio per nulla scontato. Nei prossimi giorni verrà convocato un nuovo Consiglio dello Schema volontario, che dovrà valutare il da farsi.
L’altra gamba fondamentale del potenziale intervento su Carige, secondo un piano industriale a cui sta lavorando Boston Consulting Group, riguarda poi i crediti deteriorati. La banca si ritrova ad oggi con circa 2,8 miliardi di crediti deteriorati(un miliardo di sofferenze e il resto di Utp) che devono essere eliminati, così da riportare l’Npe ratio in equilibrio. In questo quadro si inserisce l’intervento di Sga guidato da Marina Natale, che in qualità di operatore di mercato potrebbe acquisire i crediti.