C’è stato un momento in cui, dietro l’imperturbabilità del banchiere centrale, la preoccupazione di Mario Draghi per la situazione dell’economia europea improvvisamente è filtrata. È stato tre mesi fa, verso la fine della sua più recente conferenza stampa a Francoforte. È successo quando l’italiano ha pronunciato parole piuttosto nuove per un presidente della Banca centrale europea: «Una politica di bilancio adatta — ha detto — può aiutare non solo la ripresa, non solo la convergenza dell’inflazione sul sentiero del nostro obiettivo, ma anche sulla questione dei surplus esterni».
In altri termini, Draghi ha detto ciò che pochi nel sistema di governo dell’euro osano esprimere con altrettanta chiarezza: una strategia di investimenti pubblici più attiva da parte dei Paesi con conti sani e tassi d’interesse molto bassi — non l’Italia — farebbe comodo a tutti. Potrebbe risollevare un po’ la ripresa nell’area euro e contribuire a far risalire l’inflazione verso livelli meno pericolosi degli attuali, sempre sull’orlo di una corrosiva caduta dei prezzi. Quello di Draghi è forse un accenno a idee che in questi mesi cercano di diffondere anche Olivier Blanchard, ex capoeconomista del Fondo monetario internazionale, o l’ex alto funzionario del Tesoro americano Brad Setser: la Germania dovrebbe risparmiare meno, magari acconsentire a investire di più in deficit, per compensare il rallentamento proprio e quello dell’intera area euro. In questo modo aiuterebbe anche la Bce a garantire che l’area euro non scivoli in deflazione alla prossima frenata.
Se Draghi ha rotto il tabù e ha detto velatamente ciò che pensa, dev’essere perché vede i rischi che l’Europa sta correndo. Essi sono evidenti quando si guarda all’interno della zona euro: dalla fine del 2017 il sentiment delle imprese manifatturiere dell’area è in calo costante, mese dopo mese, fino a livelli compatibili con una recessione nelle fabbriche. Non va male solo l’Italia, anche in Germania la produzione industriale ha registrato cali in quattro degli ultimi cinque mesi e gli indici di fiducia si sono molto indeboliti. Nei giorni scorsi Christine Lagarde, il direttore generale del Fondo monetario internazionale, ha dato un avvertimento: «L’area euro non è pronta alla prossima crisi», ha detto l’ex ministra francese.
II punto è capire da dove possa arrivare un’eventuale recessione e quanto intensa essa possa essere. È qui che le preoccupazioni sull’Italia e sull’Europa riguardano anche il quadro nel resto del mondo. Non è una novità che la Cina stia rallentando e continuerà a farlo, tanto che l’export europeo verso la Repubblica popolare è in frenata da tempo. Meno chiaro è quanto a lungo possa durare l’attuale ripresa americana che questa primavera compie dieci anni, la seconda più lunga mai registrata. Per l’Europa è una domanda fondamentale, perché ancora oggi l’intera area dipende moltissimo dal sostegno esterno della domanda statunitense. Anche a questo proposito Draghi ha detto qualcosa, tre settimane fa: «La politica monetaria negli Stati Uniti è cambiata», ha notato con un riferimento alla pausa della Federal Reserve nell’aumento dei tassi (oggi il mercato inizia a prevedere che la prossima mossa della Fed sia un taglio). Quindi il presidente della Bce ha continuato: «Dobbiamo prendere in considerazione che ci sarà il venir meno degli effetti del pacchetto di bilancio, dunque un rallentamento nel complesso è previsto». In altri termini, i tagli alle tasse di Donald Trump hanno allungato un’espansione americana già in fase molto matura. Ma ora che il loro effetto viene progressivamente meno nel 2019, prima o poi la ripresa potrebbe interrompersi. Forse se ne vede già qualche segno: la fiducia delle imprese americane è scesa ai minimi da due anni e mezzo, la crescita degli utili è in calo del 2% rispetto a un anno fa (lo è anche in Europa) e anche le aspettative sugli utili futuri sono in flessione.
Sarebbe fisiologico, dopo dieci anni di crescita. Una recessione l’anno prossimo negli Stati Uniti, magari breve e non profonda, farebbe parte dei cicli normali dell’economia. Occorre capire però se non possa esserci qualcosa di più, a dieci anni dal terremoto che esplose con i mutui subprime. Quella fu una crisi del debito privato e proprio negli ultimi trimestri l’America ha superato una soglia simbolica: il debito delle sue imprese non finanziarie, in proporzione al reddito nazionale, ha superato i livelli pre-crisi del 2008 per raggiungere il suo massimo storico al 73% del Pil. Le imprese americane non sono mai state tanto indebitate, dopo anni di tassi d’interesse zero da parte della Federal Reserve. Neanche questo in sé sarebbe un problema, se i debiti fossero stati contratti per investire e aumentare così la loro capacità futura di generare utili per sostenere quegli oneri.
Ma a cosa sono serviti i debiti delle imprese americane? Un’analisi di Philip Gisdakis di Unicredit mostra tre elementi: il debito medio delle società quotate allo S&P500 di New York è ormai molto sopra i livelli del 2008; l’aumento dell’esposizione si è concentrato soprattutto nelle aziende finanziariamente più fragili e a basso rating; e in anni come il 2016 o il 2018 oltre il 60% della cassa che si è resa disponibile per le società quotate americane, anche a debito, è andata ai soci sotto forma di riacquisto di azioni o dividendi: la parte di investimenti è sotto al 40%. In altri termini gli amministratori delegati in America hanno preso prestiti in banca o più spesso hanno emesso obbligazioni, dunque hanno indebolito i loro stessi bilanci, per premiare le proprie stock option e i portafogli di investimenti dei loro azionisti. Al contrario le imprese in Europa si sono comportate in maniera più prudente, forse a causa della maggiore debolezza dell’economia.
A differenza che negli Stati Uniti, hanno ridotto il proprio debito sia in proporzione ai loro utili che al reddito nazionale: soprattutto in Germania e in Italia, non in Francia. E in genere queste imprese europee hanno usato i prestiti, in gran parte contratti in banca, più per investire(al 60%) che per operazioni finanziarie a favore di soci e manager. Resta dunque da capire cosa possa accadere quando l’America frenerà davvero. Un calo degli utili delle imprese più indebitate può portare a tagli dei rating, tensioni sul loro debito e a una serie di default. Si vedrà allora chi deteneva quei titoli e com’erano distribuiti quei rischi. Con la bassa marea dell’economia mondiale, si capirà anche chi stava nuotando nudo e impreparato alle nuove correnti. Forse è per questo che Draghi invita già i governi europei a spendere per dotarsi adesso di un guardaroba adatto una stagione più inclemente.