Mi è capitato nelle scorse settimane di discutere separatamente con due economisti del peso di Innocenzo Cipolletta e Enzo Rullani dell’andamento e stato di salute delle filiere italiane. E le riflessioni che ne sono venute fuori sono interessanti ai fini di una messa a fuoco del fenomeno Champions e più in generale dell’evoluzione dei distretti. La discussione partiva dal giudizio di Cipolletta circa il vantaggio distintivo dei produttori distrettuali: quello di integrare in una filiera aperta le medie imprese committenti e le piccole loro fornitrici. Una caratteristica che oppone la competenza distintiva dei produttori italiani a quella delle filiere verticali chiuse tipiche delle multinazionali, che invece utilizzano i fornitori come esecutori a basso costo di ordini di lavorazione dettati dall’alto e rispondenti a modelli e procedure standard.
Il «tailor made» vince
Secondo Rullani la possibilità di avere accesso a più fornitori specializzati per ogni segmento/lavorazione è sicuramente una fonte importante di flessibilità e anche «una base collaudata di capacità creativa, dovendo ad ogni step inventare soluzioni fuori dalle procedure consuete». Tutto ciò ha creato su scala internazionale una divisione del lavoro tra le multinazionali che presidiano le innovazioni portanti (e le procedure derivanti) e le imprese italiane che gestiscono filiere maggiormente flessibili o che contribuiscono alle filiere delle multinazionali «nei compiti fuori programma o di eccellenza quasi artigianale».
Tutto bene quindi? Il posizionamento italiano garantisce il futuro? No, secondo lo stesso Rullani, perché una forte discontinuità è venuta dalla transizione digitale/globale iniziata nel Duemila, che ha depotenziato la divisione del lavoro di cui sopra, imponendo a tutte le filiere una proiezione internazionale sempre più diretta e una codificazione digitale delle conoscenze. «Due passaggi difficili per imprese locali che lavoravano in base a relazioni informali e sapere pratico». Oggi tocca, per integrarsi a monte, codificare il proprio saper fare, mettere in rete le proprie relazioni e rendere riconoscibili le proprie capacità creative presso interlocutori esteri con cui non si ha alcuna familiarità precostituita. C’è quindi, per Rullani, un salto culturale da fare, salto che finora è riuscito solo a un 25% circa delle imprese del nostro sistema. Che sanno fare cose su misura, personalizzate in base alle esigenze del cliente e sfornare prodotti/prestazioni che possiamo definire sartoriali.
Più competenze
Ma questa è solo la «faccia vincente» della medaglia, ammonisce Rullani. I nostri winner. Una parte ancora prevalente del sistema distrettuale invece non è ancora riuscita ad avviare la transizione al digitale e non.
Il nuovo (le tecnologie) deve contaminare e riallocare il vecchio, per non ingessare l’evoluzione creativa del sistema produttivo.
Si tratta di un ritardo da poco. Non è vero forse che la crescita della produttività media italiana è lenta rispetto ai partner stranieri nonostante il peso del manifatturiero nella nostra economia? Che cosa non va, allora, e come possono essere colmati i ritardi? La prima ricetta che Rullani suggerisce è di investire in modo massiccio nella creazione di competenze digitali e legami globali, non solo macchine di interconnessione ma anche capitale umano. «Non posso non aggiungere che toccherebbe allo Stato presidiare questa transizione — sottolinea l’economista — e lo dovrebbe fare in sintonia con i nostri campioni nazionali».
La seconda ricetta passa da un rinnovato legame delle nostre multinazionali tascabili con i loro territori di origine. «Bisogna che le società locali e la politica nazionale riconoscano loro questo ruolo, lo appoggino e lo sostengano attivamente».
Non solo «origine»
Infine Rullani sostiene che sia necessaria una seconda importante discontinuità. «Iniziare a ripensare l’idea di made in Italy che nasce come marchio di origine e ora rischia di ingessare l’evoluzione creativa del sistema produttivo», alimentando posizioni di rendita di chi lo usa come marketing gratuito e non va troppo per il sottile sul livello di qualità e affidabilità dei prodotti rovinando anche la reputazione degli altri.
Come muoversi allora? Per far valere a pieno la riconoscibilità dell’industria sartoriale e farla riconoscere dal mercato, l’investimento da fare è quello sui marchi di qualità — non solo di origine — che rendano i nostri fornitori non solo utili alla competitività delle grandi filiere, ma «difficilmente sostituibili».
Il capitalismo di territorio non ne esce come un modello competitivo irrimediabilmente superato, ma ciò a condizione che «il nuovo sappia contaminare e riallocare il vecchio».
Se concordiamo sulla direzione di marcia da seguire — chiude Rullani — il sistema Italia ce la può fare portando a termine la sua riconversione digitale/globale senza eccessivi timori. Ma non dipende solo dai singoli imprenditori Champions, è necessario chiamare in causa le loro reti, le loro associazioni, gli attori sociali, le persone, la politica economica e industriale. «Pensando a tutto ciò è chiaro che il nostro futuro possa apparire meno sicuro e meno promettente, ma la partita va giocata». Senza interrogarsi troppo sul risultato.
L’Economia, 15 marzo 2019