Aprire i cantieri delle grandi opere per contrastare il ciclo economico che si sta facendo negativo. «Subito», precisa Vincenzo Boccia. Prima che sia troppo tardi e con il vantaggio che i soldi ci sono già. La manovra varata dal governo non va bene, ammette il numero uno di Confindustria: poiché tocca il deficit, si rivela «potenzialmente recessiva».
Presidente, scommetterebbe su una crescita di 0,6 punti a fine 2019?
«Al 70 per cento e solo se vogliamo essere ottimisti».
Dove si aggrappa per non vedere tutto nero?
«All’economia globale che non rallenta più di quello che immaginavamo e all’aspettativa che il governo attui misure compensative».
Davvero? Quali?
«Anzitutto l’immediata attivazione dei cantieri con le risorse già stanziate. Secondo l’Ance, avviare le opere dal valore superiore ai cento milioni di euro – per le quali sono stati previsti 26 miliardi in grado di avere effetti sull’economia di quasi 90 miliardi – genererebbe 400 mila di posti. Sarebbe una mossa anticiclica e virtuosa per l’occupazione rispetto a una manovra che, con l’economia globale che frena, appare pro-ciclica e dunque recessiva».
Sulle opere la maggioranza ha anime confliggenti. Come la mettiamo?
«Dobbiamo recuperare il buon senso. La prima analisi d’impatto che il governo deve fare per le opere, grandi e no, deve partire dagli effetti sull’economia reale delle scelte di politica economica e poi arrivare ai costi. È così si attivano investimenti, si creano posti di lavoro. La sola Tav, una delle grandi questioni nazionali, vale 50 mila impieghi».
È sufficiente questo a riequilibrare il rallentamento?
«È certo un elemento che può contribuire ad invertire il ciclo. Se non bastasse, vuol dire che ne occorrono altri».
Serve una manovra bis?
«Abbiamo criticato questa finanziaria perché è espansiva, nel senso che fa ricorso al deficit. C’è poco per la crescita e noi l’avremmo fatta diversamente. Rispettiamo però, pur non condividendolo, il primato di chi governa, ma li invitiamo ad aprire i cantieri».
Come si parla con un governo che quando sente denunciare la recessione risponde «questo lo dite voi!».
«È difficile e, non a caso, serve un dibattito pubblico. Se i dati confermeranno che c’è un arretramento – come vediamo nelle nostre imprese e come rileva Bankitalia – è ovvio che bisognerà agire. Il governo ha il dovere di pensare a un “piano B” che compensi la caduta perché il problema non è “chi ha ragione”, ma “come superare le difficoltà”. La politica deve essere parte della “soluzione” non prospettare alibi e cercare colpe».
Ci sono davvero i fondi per le grandi opere?
«Noi invitiamo a utilizzare stanziamenti già approvati, è una operazione post-manovra che non richiede indebitamento. È però un passo che richiede un differente paradigma di pensiero, una maggior ragione in vista della campagna europea: si comincia dall’analisi e dalla determinazione degli obiettivi per l’economia reale, si individuano gli strumenti e le risorse, per poi intervenire sul bilancio. Non si può fare il contrario».
Ha parlato di Tav. Il governo non ha fretta…
«E’ un errore attendere. Si sottovaluta la questione temporale, l’esigenza di fare in fretta se vogliamo rispondere al rallentamento dell’economia. Qualora la crescita fosse inferiore alle stime, cosa che speriamo non accada, sarà un problema anche per il governo e per la tenuta della manovra, nei confronti dell’Europa e degli italiani stessi».
Ne sono consapevoli?
«Devono mettere al centro delle politiche il lavoro e l’occupazione, non l’ideologia. Questo, oltretutto, è importante per un governo che ha nel proprio seno un evidente conflitto di interesse, poiché è un ministro No Tav che deve valutare un’opera che giudichiamo cruciale per l’occupazione e lo sviluppo».
È questo che tiene gli investimenti al palo?
«Quando Di Maio prevede un boom economico guidato dal digitale dice un pezzo di verità, perché i mercati globali sono anche mercati di nicchia e i mercati di nicchia sono buoni per gli italiani. Più le nostre imprese imparano a usare di più le reti. più avranno opportunità. Il ragionamento finisce però se non hai le infrastrutture per consegnare i prodotti nel mondo in modo rapido e competitivo».
Dunque il boom non è impossibile, ma non succederà senza strade e ferrovie?
«Non si può prescindere dai fattori di competitività. Diventa normale porre la questione della centralità di una industria che è la soluzione e non il problema. Non siamo consapevoli della nostra forza, in Europa come in Italia, cioè nel secondo Paese manifatturiero del continente. Bisognerebbe che questo fosse al centro del dibattito anche in vista del voto europeo».
Sa bene che non avverrà.
«È una prospettiva che genera grande disagio. Noi vogliamo aprire un dibattito su un’agenda che partirà dall’Italia, con tutte le confindustrie d’Europa. Diremo che serve pensare alla crescita reale, dunque all’occupazione, e che bisogna darsi grandi obiettivi di respiro europeo. Dobbiamo lanciare politiche che conducano a un’Europa con più occupazione, competitività delle imprese, infrastrutture transnazionali di qualità. Non basta più dire che siamo europeisti. Occorre un progetto riformista concreto dell’Europa che tutti possano capire».
Allora farete campagna elettorale per l’Europa?
«Vogliamo essere un’alternativa culturale, mai un partito e mai ancillari a un partito. Vorremmo che la politica esprimesse contenuti, non tattiche. Il 31 gennaio sarà in Confindustria a Roma il presidente di Business Europe, Pierre Gattaz. Insieme presenteremo un piano per l’Europa. In aprile, in tutte le capitali, proporremo un manifesto per una stagione riformista europea che ponga al centro gli effetti sull’economia reale. Aiuterà i partiti a entrare nei contenuti concreti».
Il reddito di cittadinanza si costruisce sull’offerta di lavoro. Ma quale?
«Non ci sono posti se non generi occasioni per occupazione e investimenti. Inoltre, chi può rinunciare a due proposte di lavoro quando, in certe zone, se ne arriva una è già un miracolo. Il reddito di cittadinanza deve tutelare le fasce vere di povertà; bisogna fare un grande piano di inclusione per i giovani, agendo sulla competitività delle imprese, sulle infrastrutture e su Industria 4.0. Questa chiave di lettura non la vediamo, così nascono le nostre proposte»
Chi dovrebbe mettere le opportunità?
«Il pubblico e il privato. Mica facile. Spesso si dimentica che dietro a 1500 euro di stipendio di primo ingresso di un giovane in una azienda c’è il 70% di tasse e contributi che va ridotto a beneficio dei lavoratori, come proponiamo nel Patto della Fabbrica per aumentare il loro potere d’acquisto e dare in tal modo una spinta alla domanda».