Prato è mille simboli in uno. E l’«uno», naturalmente, va sotto il nome di Chinese Valley italiana. Quella che ha portato il low cost alla pechinese direttamente tra le nostre fabbriche. Che ha distrutto un distretto-bandiera del tessile made in Italy e l’ha sostituito, sì: ma senza regole (quasi), a colpi di lavoro nero (spesso, se è vero che solo un addetto su due è registrato), applicando un non-modello aziendale che nessun sindacato accetterebbe e contro il quale nessuna impresa un minimo attenta alla legalità potrebbe mai permettersi. E infatti: lo stillicidio dei fallimenti è andato avanti per anni. Ora, però, lasciamo da parte per un attimo tutte le pesanti ombre che, nonostante qualche sforzo di integrazione-emersione nell’ufficialità, ancora avvolgono parecchie attività cinesi a Prato. Restano un problema enorme e qualcuno, prima o poi, dovrà decidere: affrontarlo senza una regia unica continuerà a essere complicato.
Detto ciò, sarebbe davvero una totale eresia dire che la cattiva globalizzazione importata ha prodotto, anche, la selezione di una specie imprenditoriale vincente nella globalizzazione (buona) del made in? Quello che le aziende Champions hanno raccontato nelle sette tappe toccate fin qui da «L’Economia» e ItalyPost, a Prato e dintorni (appuntamento venerdì) è rivelatore. La Grande Crisi è stata battuta, e con le straordinarie performance che le migliori 500 piccole e medie imprese tricolori sono state capaci di mettere a segno, sempre allo stesso modo: investendo anziché tagliando, attaccando su qualità e innovazione anziché difendendosi da spaventate trincee, mantenendo alti o addirittura aumentando i prezzi (perché di un made in Italy a basso costo il mondo sospetterebbe) anziché illudendosi di poter battere sul loro terreno gli eserciti della concorrenza low.
Manteco, per esempio, «non ha mai delocalizzato, anche quando tutti scappavano in Paesi più competitivi» (Marco Mantellassi, amministratore delegato). «Non facciamo business con chi ci chiede di produrre fuori dall’Italia» (Laura Nardi, presidente di Bianchi e Nardi). Con l’avvertenza che non è nazionalismo, ma strategia imprenditoriale: fossero questi, i modelli che i governi dovrebbero studiare?
*L’Economia, 28 maggio 2018