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Corrono. Non hanno mai smesso, neppure durante la Grande Crisi, e non hanno intenzione di fermarsi adesso.
Continueranno a crescere, dicono, a dispetto dei venti contrari che sono tornati a soffiare, più o meno forti e più o meno ovunque. L’ottimismo possono permetterselo: lo consentono gli ordini che hanno già in casa e i contratti che stanno per firmare. Il che non significa che anche il 2019, alla fine, sarà «un anno bellissimo» per l’economia nazionale. È esattamente il contrario. Corrono e correranno, i 600 campioni della nostra imprenditoria, perché producono in Italia, all’Italia danno lavoro, dell’Italia rappresentano il meglio. Poi, però, è sui mercati globali che vanno a fare affari.
In Italia inventano, producono, creano lavoro. Ma è all’estero che poi vanno a fare affari. Da leader (anche se di nicchia) che conoscono i segreti della competitività globale. E sì, certo che quello là fuori è un mondo caotico e ipercompetitivo. Difatti non è che i Champions non vedano e non temano le incognite sospese su di loro tra le guerre dei dazi, quella Brexit che è ancora in alto mare eppure già fa danni, il rallentamento preannunciato dalla Cina (dove per la verità è tutto relativo: Pechino crescerà pur sempre del 6-6,5%). Però, loro, i segreti della competitività internazionale li hanno imparati e affinati proprio in mezzo alla Grande Crisi.
Hanno scelto nicchie superspecializzate, hanno investito per possedere e dunque poter offrire il meglio del binomio tecnologia-qualità, si sono organizzati in modo da essere ultraflessibili. Se lavorano nell’automotive tutto ciò non sarà sufficiente a respingere le ondate che hanno già cominciato a investire il comparto, in Europa più che altrove: diciamo che punteranno a limitare l’impatto, mentre a loro volta si preparano alla <<rivoluzione elettrica >> (e non solo) continuando a investire. In tutti gli altri settori, che parliamo di meccatronica o vini pregiati, di moda o farmaceutica, di ingegneria o costumi da bagno, i Champions selezionati da L’Economia e ItalyPost vedono, nel loro 2019, altro sviluppo. Magari non più a due cifre, almeno non per tutti. Ma sviluppo.
Potrebbe non essere così per chi non è cresciuto ancora abbastanza da aprirsi strade all’estero, né per chi è più vicino al commercio che alla manifattura: il calo dei consumi interni si fa sentire da mesi e per ora, dicono, non dà segni di ripresa. Tra i Campioni delle nostre due classifiche, la Top 500 aggiornata e la nuova Top 100, sono la minoranza. Ciò non toglie che sia anche questo un segnale. Un altro spartiacque utile a capire in quali direzioni dovrebbe muoversi la politica industriale, se mai ce ne fosse una e se davvero volesse creare supporto allo sviluppo.
Scommesse
Non è complicato immaginare lo scenario — virtuoso, per una volta — su cui l’Italia potrebbe a quel punto scommettere. Questo è il secondo viaggio-reportage de L’Economia tra le piccole e medie aziende d’eccellenza. Siamo partiti dall’analisi dell’ufficio studi ItalyPost su sei anni di bilanci di tutte le imprese con fatturato tra i 20-120 e 120-500 milioni di fatturato, abbiamo selezionato le migliori sulla base di parametri molto stretti, siamo andati a cercarle (e continueremo: fino a metà giugno, ogni settimana, incontreremo i Champions direttamente nei loro territori).
Ne è uscita questa fotografia, che è datata 2017 ma mostra trend confermati l’anno scorso: fossero un’unica realtà, le 600 aziende Top sarebbero il nostro maggior gruppo privato e quello con il più alto tasso di sviluppo a lungo termine (dietro i 43,7 miliardi di ricavi c’è una crescita media annua dell’11,1% per l’intero periodo 2011-2017), il primo datore di lavoro del Paese (con 160 mila dipendenti), una delle realtà più patrimonializzate in rapporto alle dimensioni (con 26,9 miliardi di patrimonio netto), delle meno indebitate (la posizione finanziaria è anzi «cash positive» per 4 miliardi), quasi certamente la più redditizia (esistono, altri investimenti che rendano il 17%?).
È un esercizio puramente teorico, sì. I Champions non sono un unico gruppo. Sono tante tessere, sparse in tanti settori diversissimi tra loro, di un puzzle che non potrà mai essere composto. E, se pure fosse, i risultati non potrebbero probabilmente essere gli stessi. Un fatto non cambierebbe: da queste aziende che producono, creano lavoro, crescono, esportano (anche oltre il 90%), fanno ricchi utili, reinvestono tutto o quasi tutto in innovazione di processo e di prodotto, arrivano al 2% del Prodotto interno lordo italiano e un consistente contributo alla bilancia commerciale.
Leadership
Il paradosso è che, spesso, noi nemmeno le conosciamo. A volte è «colpa» loro, e proprio perché puntano tutto sull’estero. Per dire: chi aveva mai sentito, fin qui, il nome Botter? Dalle loro cantine escono ottimi vini, sono il settimo produttore italiano e il primo esportatore, eppure quelle che oltre confine considerano eccellenti etichette del made in Italy qua nessuno le ha neanche mai viste (rimedieranno: ora i piani di espansione includono anche il mercato interno). In moltissimi altri casi, però, ci confermiamo un Paese un po’ distratto. Apple non rivela mai i nomi dei suoi fornitori, e impone loro (per contratto) di applicare lo stesso ossessivo silenzio. Però: è possibile che Cupertino chiami Italia per (esempio) la struttura esterna o gli interni del suo campus astronave, e noi di aziende così (almeno un paio, nella sola Top 500) non ci accorgiamo? Il problema non è esaltare le imprese in questione. È qualcosa di molto più serio, da iscrivere direttamente al capitolo «progettare il futuro».
D’accordo: i Champions il futuro se lo sono progettati da soli, senza fare alcun conto su un sistema-Paese che del resto non c’è. L’hanno fatto così bene da essersi conquistati un bel po’ di leadership internazionali (di nicchia, okay, ma non è meno complicato). Però, quando quel sistema Paese un po’ se ne è interessato, loro non si sono voltati dall’altra parte. Prendete, per dire, il Piano Industria 4.0 lanciato dal precedente governo. Uno studio dell’Università di Padova (ne parliamo in questo stesso numero) suggerisce che i Champions ne abbiano approfittato fino all’ultimo «zero virgola»: nell’80% delle loro aziende le tecnologie 4.0 sono un fattore di competitività (e di successo) quotidiano. Il che fa evidentemente una certa differenza, a giudicare dal panorama generale: tra tutte le piccole e medie imprese il tasso di «adozione» si ferma al 18,6%, e nemmeno i grandi gruppi vanno oltre il 50%. Dopodiché. I Campioni saranno anche l’élite dell’industria italiana per capacità di crescita e di innovazione, ma è chiaro che neppure tra loro il quadro è fatto solo di luci. I «pro» dell’impresa familiare, uno su tutti, in questo caso: il reinvestimento quasi totale degli utili — prima o poi rischiano di essere superati dai limiti, la chiusura a manager o capitali esterni finisce col confondere «indipendenza» con «autoreferenzialità».
È qui che dovrebbe scattare l’allarme, perché è qui che anche i Champions possono mancare il bivio dello sviluppo. È successo, succederà.
Ma, se è vero che a un certo punto «piccolo» non può più essere sinonimo di «bello», concludere che sono le dimensioni-bonsai il male del capitalismo italiano non porta molto lontano.
Questo è quello che abbiamo, e dire «non va» non cambierà le cose. Prendere un modello che funziona e metterlo in condizione di autoreplicarsi, forse, sì.
*Corriere della Sera, 15 marzo 2019