La sua prima vita, Aldo Braca l’ha passata in giro per il mondo da top manager delle multinazionali Big Pharma. La seconda, l’ha costruita attorno (parole sue) «a un sogno». Era il 2006, poteva andarsene tranquillo in pensione. Ha scelto di rischiare tutto e fondarla lui, un’azienda farmaceutica. La fabbrica di Bsp nasce a Latina, sviluppa e produce antitumorali dove c’era una volta la Tetrapack (crisi, chiusura, cento operai in mobilità), e non ha mai smesso di investire, crescere, creare lavoro. Oggi è uno dei migliori esempi della piccola e media imprenditoria italiana sconosciuta, ai più, eppure di enorme successo. Non è una new entry assoluta, tra i Champions L’Economia-ItalyPost. È però uno dei Campioni che già hanno fatto il primo salto dimensionale: fino all’anno scorso stava nell’affollata «classe» tra i 20 e i 120 milioni di fatturato, nell’edizione 2020 (sui bilanci 2018, gli ultimi depositati) è tra i 200 top performer della fascia 120-500 milioni. Ed è best tra i best. Tra un’acquisizione e un investimento – il più recente: 141 milioni per un nuovo impianto che, tra l’altro, raddoppierà i dipendenti – Bsp Pharmaceuticals ha triplicato il fatturato negli ultimi sei anni, negli ultimi tre ha mantenuto un margine operativo medio del 44%, nel 2018 ha prodotto 35 milioni di utili netti su 124 di ricavi. Ritorno sul capitale: 50%.
Non è facile (eufemismo) replicare performance del genere. Tra i Champions non è però nemmeno così raro. Lo ha dimostrato la prima tappa del nostro reportage tra le migliori piccole e medie aziende del Paese (la Top 800 della settimana scorsa). Lo confermerà l’analisi completa che pubblicheremo il 13 marzo, con la Top Mille tra le Pmi e uno sguardo (tanto per iniziare) a ciò che succede tra chi è già «grande» ma non ancora grandissimo (fino al miliardo di fatturato). Lo prova l’esame delle 200 eccellenze medio-grandi, le società della fascia 120-500 milioni, cui incominciamo a dedicare questa e le tre pagine che seguono.
Innovazione
Come Bsp, altre 28 imprese sono new entry «di classe» (22 promosse dalla Top 20-120 milioni dell’edizione 2019, sei nuovi ingressi assoluti). Tutte hanno tassi di crescita molto, molto superiori alle medie cui è abituata l’Italia, e all’interno della Best 200 non poche si avvicinano ai record dell’azienda pontina. Una in particolare le assomiglia, e anzi: quanto a risultati, va addirittura oltre. Diciamo che se c’è (e c’è) un «paradigma Champions», Giuseppe Crippa lo incarna almeno quanto Aldo Braca. Anche lui era un top manager (StMicroelectronics). Nemmeno lui voleva «godersi la pensione». Il classico garage di casa dove, nel 1995, ha iniziato a produrre schede elettroniche oggi è un gruppo con leadership globale nei test per microchip: da Cernusco Lombardone, Lecco, la Technoprobe Valley vende le sue ProbeCard ai re del mondo smartphone, tablet, eccetera eccetera. I suoi clienti – non a caso ha aperto una sede in Silicon Valley – si chiamano Apple, Samsung, Huawei. Il suo fatturato era di 17 milioni nel 2012: ha superato i 142 nel 2018. E con performance reddituali persino più spinte: 85 milioni di margine operativo, 75 di utile netto. Non c’è bisogno di calcolare le percentuali, per dare l’idea. È sufficiente aggiungere che il capitale investito rende il 46%.
È chiaro che queste sono le punte di diamante. È chiaro anche che i settori di attività giocano un ruolo essenziale, nella crescita. Farmaceutica e microelettronica sono universi complicatissimi, la concorrenza è micidiale e si fa a colpi di innovazione spinta. E tuttavia chi trova la chiave giusta può – per quanto piccolo e appartenente a un Paese che considera la Ricerca una priorità soltanto negli slogan – ritagliarsi un posto da protagonista assoluto. Ottenere gli stessi risultati nei comparti più tradizionali del made in Italy, moda inclusa, è evidentemente ancora più complesso. Eppure persino nel più maturo di questi terreni, l’agroalimentare-enologico, «si può».
Tradizione
Esempio (tra i molti possibili): Palazzo Antinori. Se Bsp e Technoprobe sono imprese giovani, e la seconda generazione si è appena affacciata, la famiglia fiorentina di generazioni ne ha attraversate già 26. Fanno vino dal 1385, sono uno dei brand italiani più noti e rispettati nel mondo «eno». Un mondo in cui si può crescere a due cifre solo attraverso acquisizioni, certo: ma ciò non impedisce bilanci da Champions. L’ultimo firmato-depositato da Albiera Antinori e dal padre Piero parla di un fatturato di 233 milioni (6,6% la crescita media annua dal 2012) : ne rende 108 di margine operativo e 78 di utile netto. Chapeau.
Ora. Alle porte del pianeta bussa una nuova, probabile recessione. E poiché è nei cinque continenti, che questi e gli altri Champions fanno il grosso dei loro affari, è impensabile che non ne risentano. Però è vero anche che proprio nell’ultima Grande Crisi hanno dimostrato capacità di tenuta, reazione, ripresa: e infatti, spesso, dal tunnel sono usciti persino più forti. Quando li incontreremo, in Piazza Affari e poi nel giro d’Italia in dieci tappe organizzato con ItalyPost, saranno loro a darci direttamente il polso dei mercati e a raccontarci le contromisure messe in campo. Nel frattempo, sarebbe pericoloso sottovalutarne il peso sull’economia nazionale. Le Top 200, nel loro insieme, sono state capaci di crescere dai 25 miliardi di fatturato 2012 ai 42,5 del 2018, di mantenere un margine operativo medio del 15% negli ultimi tre anni, di produrre 3,5 miliardi di utili netti nel solo ‘18. Ci sono quasi 23 mila persone, che lavorano per loro. Fosse pur soltanto per questo: non è il caso, ogni tanto, di accorgersene? Fondi e concorrenti esteri l’hanno già fatto. E sono lì. Pronti a comprare.
*L’Economia, 24 febbraio 2020