In questi ultimi vent’anni, il design ha saputo imporsi in campi diversi, dall’arredo alla progettazione delle interfacce digitali, dai dispositivi biomedicali fino ai nuovi prodotti versione 4.0 perché ha promosso un metodo che ha fatto del dialogo con l’utilizzatore finale il punto di partenza di ogni forma di innovazione. Design è ascoltare la società, dare voce alla domanda, sfidare punti di vista consolidati, riconfigurare — quando necessario — processi produttivi dati per scontati.
È utile ricordare tutto ciò in una crisi che i media descrivono come una vera e propria guerra. Crisi drammatiche, come quella che stiamo vivendo, rischiano di farci oscillare pericolosamente verso forme di governo della complessità che credevamo alle nostre spalle. Spingono verso l’accentramento decisionale, per agevolare linee di comando univoche e efficienti. Rilanciano un rapporto fra autorità e cittadino incardinata su una subordinazione passiva che a lungo abbiamo identificato come un limite. Per favorire efficienza e rapidità, rischiano di mettere in secondo piano coloro che dovrebbero essere al centro dei processi di innovazione. Anche in circostanze eccezionali, è giusto che il design faccia valere le sue ragioni proponendo un’idea di innovazione in grado di partire dal vissuto dei singoli individui. Nessuno mette in discussione la necessità (temporanea) di una razionalizzazione di linee di comando per la gestione delle emergenze. È importante, tuttavia, tenere a mente che i problemi che abbiamo di fronte richiedono empatia, riconoscimento delle difficoltà altrui, capacità di interpretare bisogni latenti. Proprio grazie a questa sua capacità di cogliere la varietà dei segnali che vengono dalla società, il design, inteso nel senso più profondo del termine, è stato capace di rappresentare un enzima chiave nella modernizzazione delle nostre imprese e della società nel suo complesso.
Queste considerazioni sono oggi tanto più urgenti quanto più emerge con chiarezza che l’epidemia con cui ci stiamo confrontando non è una parentesi di qualche giorno o di qualche settimana. Anche quando sarà passata la fase più acuta della pandemia saremo chiamati a gestire una lunga fase transitoria e a riflettere su come affrontare situazioni analoghe con nuovi strumenti. Meglio attrezzarsi subito e avviare un cambio di prospettiva compatibile con il medio e lungo termine. In questi giorni, non sono mancate le buone notizie. La società italiana ha dimostrato di saper interpretare il cambiamento con una velocità in molti casi sorprendente. Scuole e università hanno saputo riconfigurare rapidamente il rapporto fra alunni e insegnanti. Dopo una prima fase di choc, il mondo economico ha dimostrato una importante capacità di reazione. Vediamo sforzi di innovazione nelle imprese, nei laboratori di ricerca e nei Fab Lab. Dalle valvole stampate in 3D ai respiratori ricavati dalle maschere da sub l’Italia che innova ha saputo dare forma a percorsi di innovazione «frugale» coerente con le necessità di adattamento imposte dalla crisi. Questa capacità di adattamento è la premessa per percorsi di innovazione centrati sul metodo del design.
Da dove cominciare? Gli spazi di intervento sono diversi e non toccano semplicemente la dimensione della sanità. Si può chiedere a progettisti, medici e ingegneri di definire in velocità spazi e soluzioni per gestire l’accettazione dei malati negli ospedali. Si possono immaginare e sviluppare oggetti e servizi con la prevenzione della diffusione del virus (come le mascherine stampabili in 3D dei fratelli Gaddi o le maniglie a prova di contagio proposte da Ivo Tedbury e Freddie Hong). Si possono definire e mettere a punto interfacce digitali e applicazioni in grado di rendere espliciti i dati relativi alla diffusione dei fenomeni epidemiologici sul territorio. Si possono inventare nuove modalità per offrire servizi destinati alle fasce più deboli della popolazione (distribuzione di alimentari e farmaci). È possibile immaginare fin da ora il layout di bar e ristoranti, uffici pubblici e privati, coerenti con nuovi standard di igiene pubblica in vista di una possibile riapertura.
La lista potrebbe continuare. I tanti contest lanciati in questi giorni in rete sono lì a testimoniare le potenzialità di un percorso che già oggi dà i primi segnali della propria vitalità. In tutti questi cantieri il design non è semplicemente risoluzione elegante (o eterodossa) di problemi complessi. È anche e soprattutto ricostruzione di un tessuto connettivo a livello economico e sociale. È riconoscimento della varietà dei bisogni e dei contesti. È un impegno «francescano» (nell’accezione proposta dall’economista Luigino Bruni) ad andare incontro all’altro facendosi carico delle sue difficoltà.
Siamo chiamati a rilanciare, in tempi brevi, un’economia di pace basata su relazioni e dialoghi che sono all’origine del successo del Made in Italy nel mondo. La posta in gioco non è solo economica. Si avverte l’esigenza di interpretare i problemi delle persone che ci stanno vicino (in molti casi le loro sofferenze) identificando soluzioni praticabili, partecipando in modo attivo alla riorganizzazione, tutt’altro che facile, del nostro sistema di produzione e di distribuzione.
È importante rimettersi all’ascolto, proponendo idee e progetti che contribuiscano a rinsaldare legami e fiducia all’interno del Paese così come a livello internazionale. È questo il modo migliore per creare un antidoto ai caratteri regressivi che un linguaggio da economia di guerra porta inevitabilmente con sé.