Ministro Carlo Calenda, lei prevede un governo basato sull’asse M5S-Lega?
«Plausibile. Se si guarda alla responsabilità finanziaria, le coalizioni sono chiare. La pensano in modo simile. Ma per evitare la procedura per deficit eccessivo, l’Italia in autunno deve fare una manovra per il 2019 con il deficit allo 0,9% del Pil».
In passato si è sempre rinegoziato. Perché ora no?
«Qualcosa si può strappare. Ma non il 3% che, tra l’altro, neanche basterebbe per Flat Tax, Reddito di cittadinanza e abolizione della Fornero. E se poi disinnescano anche gli aumenti Iva? Per i populisti il tempo dei talk show è finito. M5S e Lega sono stati votati anche per distribuire risorse, rovesciando il tavolo a Bruxelles. Ma attenzione, dopo Brexit l’Europa ha un atteggiamento diverso. Fossi la Lega o M5S, non mi aspetterei di ricavare qualcosa facendo sceneggiate a Bruxelles: chi non sta alle regole, si mette fuori dalla costruzione europea».
La calma sui mercati non sembra confermare i suoi timori.
«La situazione geopolitica è fragile. L’Ue ha fronti aperti con Stati Uniti, Russia e Turchia, con i Paesi di Visegrad e con l’Africa sulle migrazioni. Se l’Europa entra in tensione, un attacco sull’Italia può partire rapidamente. Ci sono segnali. Il grande fondo Blackrock per ora non compra più debito italiano».
Non è giusto che chi prende i voti possa governare senza pistole puntate?
«Basta che abbia chiari i rischi che ci fa correre. Chi governerà ha promesso misure che implicano una procedura europea contro l’Italia sui conti pubblici. Si vuole questo? O hanno cambiato idea? Gli italiani hanno diritto di saperlo».
Gli elettori hanno espresso una maggioranza contro le regole dell’euro.
«Credo che gli italiani continuino a essere europeisti. La crisi però è stata lunghissima. Nell’ultima legislatura tutti gli indicatori sono migliorati in modo sostanziale, ma le ferite erano profonde e non si sono ancora chiuse. La strada giusta è quella degli ultimi governi, le scorciatoie sono attraenti almeno finché non si inizia a percorrerle. Poi ci si accorge che sono anche pericolose».
Tutto qui come esame della sconfitta?
«No, certo. Dire che la crisi era risolta è stato un errore. La paura del futuro è giustificata e deve avere diritto di cittadinanza. Invece la politica tradizionale in Occidente da 25 anni non trae più le sue idee dalla realtà sociale: ha iniziato a prenderle da una teoria economica che disegnava un futuro migliore per tutti grazie alle tecnologie e alla globalizzazione. Come non ci fossero anche dei perdenti. Ma ci sono, e questa cecità ha finito per incrinare il principio di rappresentanza. Pensare il futuro va bene, ma la politica deve anche rappresentare i disagi del presente e governare le transizioni».
Il Pd ha lasciato la difesa dei deboli ai populisti?
«I governi del Pd hanno affrontato bene i problemi e la difesa dei deboli, dalle crisi aziendali al reddito di inclusione, lavorando su investimenti e crescita: da industria 4.0 al taglio delle tasse sulle imprese. Ma ha dato poca legittimità alle paure e rappresentato in modo semplicistico il futuro. Il populista che promette di occuparsi delle paure di oggi è più connesso a una società in cui la fiducia è fragile».
Lei è andato all’Ilva o all’Embraco e l’hanno accusata di essere uno statalista. Lo è?
«La cosa interessante è che i liberali hanno dimenticato che essere tali significa osservare la realtà, interagire con essa. Non sulla base di costruzioni ideologiche. Ilva può ricominciare a produrre acciaio in maniera efficiente, e così Alcoa. E Embraco è un’azienda in utile che viene spiazzata da una concorrenza sleale. Ignorare la realtà è una ragione della caduta delle élite liberal-democratiche. Come quando avevamo deciso che l’industria manifatturiera in Occidente non aveva futuro, lasciando campo alla concorrenza sleale della Cina».
Dunque ha ragione Donald Trump con i dazi?
«No, perché mira a chiudere il mercato e una guerra commerciale che colpirebbe il made in Italy. Altra cosa sono i dazi antidumping che abbiamo contribuito a varare in Europa. Detto questo, il rapporto transatlantico dobbiamo coltivarlo, è fondamentale. Qui il rischio di uno slittamento di M5S e Lega verso altri lidi mi spaventa».
Nel Pd ha trovato sensibilità su questi temi?
«Non saprei. Mi sono iscritto, ho fatto due riunioni in sezione e ho presenziato alla direzione. Fine».
Non l’hanno chiamata? Il neosegretario Martina non l’ha cercata?
«Non ultimamente. Ma il mio riferimento nel Pd è Paolo Gentiloni, con lui parlo spesso».
Deluso?
«No. Penso siano impegnati a tenere insieme il partito e questa è giustamente la loro priorità. Mi permetto di osservare che sarebbe meglio evitare la lotta fra caminetti e gigli. Invece bisogna far riavvicinare al Pd tante persone di qualità, facendo una grande campagna per le iscrizioni e coinvolgendo persone da fuori».
Però lei ha l’aria di parlare a un’area macroniana di centrosinistra, centro e centrodestra: gli italiani che esportano, studiano, vanno all’estero.
«Non sarebbe utile per il Pd? Ma oggi il tema è rappresentare anche quelli che perdono: i giovani nelle aree più arretrate del Paese, ad esempio. Dovremmo identificare aree di crisi sociale dove varare strumenti straordinari per i ragazzi: doposcuola per portarli alla lettura, lingue e borse di studio universitarie. Più utili del reddito di cittadinanza e meno cari».
Lei prepara la sua candidatura a leader del fronte moderato?
«Ho sempre fatto quello che ho detto. Mi dicevano che ero il candidato di Berlusconi e non l’ho mai incontrato. Che mi sarei candidato al Parlamento, malgrado io smentissi, e non l’ho fatto. Se deciderò di fare un’operazione politica, lo dirò con chiarezza. Di certo un contributo continuerò a darlo».