Per registrarti all’evento, clicca qui
«Sono completamente d’accordo con Marco Bentivogli: i politici dovrebbero tornare nelle fabbriche». Antonio Calabrò, attuale direttore della Fondazione Pirelli, oltre che vicepresidente di Assolombarda, è convinto che il problema dell’economia italiana stia principalmente lì. Nel diffuso clima anti-imprese che sta montando in Italia, in una società in cui sempre più il cambiamento è percepito come una minaccia. E in una politica che non solo non aiuta le imprese, ma che «non ha la minima idea di quali siano le condizioni dello sviluppo contemporaneo».
Ecco perché, allora, per Calabrò, quella dell’impresa riformista è la vera opposizione culturale alla mentalità e alla classe politica che governa l’Italia. Ed ecco perché ha scelto di intitolare così il suo ultimo libro di recente uscita, edito per Egea, in cui prefigura l’impresa come soggetto “politico” attivo. Non un partito delle imprese, come quello sceso in piazza per protestare contro il blocco dei cantieri del tav Torino-Lione, quanto piuttosto un soggetto che vive nella società e che contribuisce a determinarne le trasformazioni. Da ascoltare e non ostacolare, nei suoi processi di costruzione di lavoro e sviluppo: «Gli imprenditori dovrebbero essere un motore fondamentale della crescita sociale e civile di un Paese – spiega Calabrò -. E uso il condizionale non a caso».
Perché usa il condizionale, Calabrò?
Perché mi piare che al centro del modello di sviluppo italiano, oggi, ci sia lo Stato come distributore di risorse.
È un modello di sviluppo votato dalla maggioranza degli elettori…
Indubbiamente. Questo è un governo che nasce sullo scontento e sul disagio. Ma è un governo che a sua volta alimenta paure, rancore, risentimenti. Sussidia, non progetta. Mette soldi in tasca, non costruisce nuove occasioni di lavoro. Distribuisce pesci, non insegna a pescare.
È un problema?
Sì che lo è. Noi siamo dentro una trasformazione radicale: saltano schemi si creano nuove opportunità. Digitalizzazione dell’economia distrugge posti di lavoro, e ne crea di nuovi. Nel 2054 sparirà il lavoro, dice Davide Casaleggio: attendibilità scientifica? Zero. E in ogni caso, anche se fosse, la sfida è capire come costruire lavori nuovi.
Una sfida che riguarda sia la politica sia l’impresa, questa. È per questo che parla di impresa riformista?
Riformista è un termine della politica: e io credo che l’impresa abbia una responsabilità politica. Non nel senso del partito degli imprenditori. L’impresa è un soggetto politico, che elabora gli obiettivi generali dell’ambiente in cui opera, per inserirvi i propri obiettivi specifici di business.
Perché riformista?
Il riformismo è l’idea che si cambino le cose con un senso della storia e della realtà. C’è un bellissimo libro di Federico Caffé che parla della solitudine del riformista. I grandi progetti sono appassionanti e fanno volare il cuore. Il riformismo, così come l’attività d’impresa, è metodo, lavoro, pazienza impegno. Tutte virtù sempre meno diffuse in un Paese chiacchierone. Io ho provato a tenere insieme queste due parole, convinto che il pensiero dell’impresa sia un pensiero di orientamento al cambiamento.
Anche questo governo si definisce in relazione al cambiamento? Non ritiene che sia una parola un po’ abusata?
Cambiamento di per se è parola neutra: si può cambiare in meglio o in peggio. I valori dell’impresa, come la ricerca, la trasformazione, la selezione delle competenze e la competizione sono valori del cambiamento positivo. Credo che gli imprenditori, buona parte di loro, perlomeno, abbiano preso atto che il loro impegno, i loro investimenti, tentativi di avere uno sguardo generale, siano stati tenuti senza alcuna considerazione. La dialettica è sempre stata vivace, ma mai come adesso c’è stata tanta divergenza coi criteri dello sviluppo sostenibile.
Però Salvini e Di Maio fanno a gara a incontrare gli imprenditori…
Salvini e Di Maio a parole sono con noi, ci incontrano, ma non hanno la minima idea di quali siano le condizioni dello sviluppo economico contemporaneo: competizione globale, sviluppo tecnologico di alto livello, valorizzazione della qualità. E ancora, rapporto tra innovazione tecnologica e attività d’impresa, selezione in base alle competenze, sostegno alla scienza e sua traduzione in prodotti e servizi, inclusione e solidarietà. Sono tutti termini che non stanno nei programmi di questi governo.
È più un problema di competenze che di volontà, pare di capire…
Sono completamente d’accordo con Marco Bentivogli: i politici dovrebbero tornare nelle fabbriche. Gli ultimi a farlo, nei prmi anni del nuovo millennio, sono stati Letta e Bersani. Entrare nelle fabbriche non vuol dire fare la visita con fotografi al seguito. Significa studiare, conoscere i processi, parlare con chi ne sa. Il tweet è fragile, effimero, stravolgente. Leggessero Ezio Vanoni, tutti questi signori che fanno finta di governare. È l’uomo che ha rimesso in piedi l’economia del Paese dopo il disastro della guerra e loro non sanno nemmeno chi è.
Come si rimette in piedi oggi, la nostra economia?
Riprendo le indicazioni di Carlo Bonomi: nente 80 euro, niente reddito di cittadinanza, niente pensioni anticipati, ma taglio delle tasse per le imprese che investono, più finanziamenti per l’innovazione, e investimenti sui progetti di innovazione digitale. E poi rimettere in piedi la spesa per gli investimenti già stanziati. Il no alle infrastrutture paralizza il Paese. Se fai leva sui rancori condanni il Paese al declino. L’impresa riformista fa questo lavoro: puntare sulle energie positive dell’italia.
*Linkiesta, 4 aprile 2019