Essere green è diventato una moda. Ormai non esiste azienda che non si definisca sostenibile. Non che questo sia una cosa negativa, anzi. Sappiamo che le mode sono le “spinte gentili”, direbbe il premio Nobel Richard Thaler, per raggiungere un obiettivo. E se la moda green riesce ad avere un mondo più pulito, ne abbiamo tutti dei benefici. La Cina, “la prima azienda” del pianeta, ha dato una svolta ambientale decisa alla sua politica ambientale. Costruire una fabbrica in Cina, già da molti anni, richiede l’applicazione di regole stringenti in materia di rispetto dell’ambiente. Non è così per l’India e per tanti altri paesi emergenti che non vogliono mettere dei freni alla loro crescita in nome dell’ecologia. Recentemente, Larry Fink, il CEO di BlackRock, la più grande grande società di investimento nel mondo che gestisce un patrimonio totale di 6.000 miliardi di dollari, ha inviato agli amministratori delegati dell’S&P500 e alle grandi imprese europee, una lettera in cui chiede di avere conto nei loro piani di strategie di lungo termine in difesa dell’ambiente. Se si è convinto perfino Fink, vuol dire che siamo ad un “punto di svolta”, per richiamare quel bel libro pubblicato da Fritjof Capra nel 1980. C’è una sensibilità che di giorno in giorno sta crescendo, soprattutto nelle nuove generazioni. Recentemente l’ISTAT, nell’annuale report su 100 indicatori chiamato “Noi Italia”, ci ha fornito alcune indicazioni molto interessanti sul tema:
“Nel 2016 la quantità di rifiuti urbani raccolti è pari a 30,1 milioni di tonnellate, con un aumento di circa 590 mila tonnellate rispetto all’anno precedente (…). La raccolta differenziata raggiunge il 52,5%, 5 punti percentuali in più rispetto al 2015, confermando il trend fortemente crescente degli ultimi anni: rispetto al 2006 la percentuale è raddoppiata, anche se non raggiunge ancora l’obiettivo del 65% previsto per il 2012. Tra il 1990 e il 2015 l’Italia ha ridotto le emissioni dei gas serra del 16,7%, passando da 520 milioni di tonnellate di CO2 equivalente a 433. Nello stesso periodo a fronte di un aumento medio della popolazione del 7,1%, le emissioni pro capite sono diminuite del 22,2%. Nel 2015, le emissioni gas serra, dopo quattro cali consecutivi, aumentano lievemente (+2,3%).”
Ritornare a lavoro, capitale e terra
Questo basta? No, dicono gli scienziati. Siamo in movimento, si potrebbe dire. A livello individuale, la sensazione è che se siamo diventati più bravi nelle scelte personali, ma che ancora la questione ecologia non sia ritenuta essenziale dalla maggioranza. Eppure, non occorre essere degli scienziati per capire che l’impegno non può essere parziale, ma totale. Tutto questo risulta chiaro leggendo l’ultimo libro dell’economista Kate Raworth. Lei insegna ad Oxford e prende a prestito un’immagine della nostra infanzia – semplice ed allo stesso tempo efficace, come la ciambella con il buco -, per condensare come e cosa bisogna fare per ripensare ad un’economia che anziché distruggere possa convivere ed interagire con il nostro pianeta. Il libro, “L’economia della Ciambella”, punta ad una un’economia che sia generativa e rigenerativa fin dalle sue premesse. La tesi, con sette specifiche articolazioni declinate nel testo, prende le mosse da diverse scuole di pensiero come quella ecologica, femminista, istituzionale, comportamentale e a quella della complessità per farle confluire e interagire tra loro. L’essenza della ciambella sta in un sistema modulare in cui vi sono una coppia di cerchi concentrici:
“Al di sotto del cerchio interno – la base sociale – si trovano privazioni critiche come la fame e l’analfabetismo. Oltre il cerchio esterno – il tetto ecologico – si trova il degrado ambientale, per esempio i cambiamenti climatici e la perdita della biodiversità. Tra i due cerchi si trova la ciambella, lo spazio entro il quale possiamo soddisfare i bisogni di tutti rispettando i limiti del pianeta.”
La Raworth non si iscrive al club dei degli anticapitalisti, e partendo da un’analisi molto puntuale delle varie teorie economiche, arriva a dare un contributo interessante nel tentativo di conciliare ambiente ed economia. Nel suo ripercorrere le tappe dell’economia moderna, arriva a individuare il momento in cui avviene la frattura tra ambiente ed economia. Non accade con i primi economisti. I fisiocratici, infatti, nel XVIII secolo ricavarono il loro nome dalla convinzione che il terreno agricolo fosse un elemento essenziale per comprendere il valore economico delle cose. Lo stesso pensatore americano Henry George, negli anni settanta dell’ottocento, aveva riconosciuto come il lavoro, il capitale e il terreno fossero i tre fattori di produzione. Alla fine del XX secolo, l’economia ne ha considerati solo due: lavoro e capitale. Il terreno è stato inglobato nel capitale senza avere più rilevanza nel momento in cui l’agricoltura aveva perso importanza. Una distanza che diventa siderale con il neoliberismo, quello che parte dalla curva di Laffer e dai tagli fiscali dell’epoca reganiana, come ci ricorda un altro libro uscito recentemente, “Salviamo il capitalismo da se stesso” (Il Mulino), del sociologo Colin Crouch.
Strumenti per misurare la ciambella
Per la Raworth, in realtà, quando Adam Smith pubblicò “La ricchezza delle nazioni” nel 1776, c’erano poco meno di un miliardo di persone sul pianeta e l’ambiente era un elemento non così decisivo tanto che per il padre dell’economia politica era scontato soffermarsi sulla produttività quale frutto della divisione del lavoro dimenticandosi del contesto. Non a caso, nella sua opera più importante, “La ricchezza delle nazioni”, Smith sosteneva:
“Si può osservare che la parola valore ha due differenti significati: talvolta esprime l’utilità di qualche particolare oggetto e talaltra il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce. L’uno può essere detto «valore d’uso»; l’altro «valore di scambio». Le cose che hanno il massimo valore d’uso spesso hanno scarso o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno il massimo valore di scambio hanno frequentemente scarso o nessun valore d’uso. Nulla è più utile dell’acqua; ma con essa non si potrà acquistare quasi nulla e difficilmente si potrà ottenere qualcosa in cambio di essa. Un diamante, al contrario, non ha quasi nessun valore d’uso; ma con esso si può spesso ottenere in cambio una grandissima quantità di altri beni. “
Oggi, invece, che abbiamo raggiunto la quota di 7,5 miliardi di persone, l’acqua rimane utile, come quasi 250 anni fa quando Adam Smith scrisse queste parole, ma, a differenza di allora, ha assunto un suo valore economico preciso e crescente. Questo cambio di paradigma, porta la stessa economia a misurarsi con elementi diversi e fino ad ora sottostimati. Considerare la Raworth non iscritta al club degli anticapitalisti, pone le sue tesi su un piano di forte contestazione alle logiche finanziarie che oggi dominano l’economia, ma di aperta mediazione tra quelle che sono le necessità dell’individuo e di sviluppo delle società. La sua è, in questa costante attenzione a non superare il secondo cerchio della ciambella, una visione che prevede comunque uno soft landing che affronta nell’ultimo capitolo, “Essere agnostici sulla crescita”. Qui mette in discussione i cinque stadi della crescita di W.W. Rostow proponendone, a sua volta, sei diversi passaggi: 1) società tradizionale; 2) pre-condizioni per il decollo; 3) il decollo; 4) la spinta al pieno sviluppo; 5) l’era dei grandi consumi di massa; 6) preparazione dell’atterraggio e arrivo. A suo avviso,
“la cosa più impressionante è che molte delle politiche proposte per rendere possibile un’economia slegata dalla crescita sono anche quelle che potrebbero contribuire a renderla distributiva e rigenerativa di principio”.
In sostanza, la Raworth crede in un’economia capace di interagire con l’ambiente anziché sfruttarlo: una completa economia circolare. Per il momento, lasciando alle tesi della Raworth la forza dell’utopia possibile, occorre l’impegno di tutti per rendere i propri impatti personali e quotidiani meno rilevanti per l’ambiente. Qui sì che esiste uno spazio ampio per ognuno di noi. Non è uno spazio facile perché i rischi degli “estremismi” sono dietro l’angolo. E in Italia stiamo diventando degli specialisti. Il NIMBY (Not In My Back Yard), come il No Tav o il No ILVA, si sta propagando in una concezione che ci sta portando dentro all’”igenizzazione” della società. Abbiamo invece bisogno di una cultura dell’ambiente che deve trovare, questo probabilmente il merito maggiore del “L’economia della Ciambella”, la costante ricerca di un nuovo equilibrio con l’economia. Alla metafora della ciambella, e dei suoi sottosistemi, bisognerebbe dare seguito creando degli strumenti in grado di misurare quando le azioni dei singoli, o delle organizzazioni, rompono questo equilibrio.
Titolo: L’economia della Ciambella
Autore: Kate Raworth (Traduzione Erminio Cella)
Editore: Edizione Ambiente
302 pp; 22 Euro