Proroga, sì o no? E se sì, quanto lunga? È ormai all’ordine del giorno il rinvio dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea dopo che il governo May si è assicurato un voto in tal senso a Westminster giovedì sera. La decisione all’unanimità dovrà essere presa dai capi di stato e di governo dei Ventisette, che si riuniranno per un vertice europeo fissato da tempo il 21 e il 22 marzo. La questione imbarazza non poco i Paesi membri, ben consapevoli che potrebbe provocare divisioni nazionali.
In tre diversi voti questa settimana il parlamento britannico ha deciso di bocciare nuovamente l’intesa di recesso negoziata negli ultimi due anni tra Londra e Bruxelles, di escludere comunque una uscita senza accordo, e infine di chiedere un rinvio dell’uscita dal 29 marzo al 30 giugno. A tutta prima il risultato delle tre votazioni appare drammaticamente contraddittorio. E in parte lo è: riflette l’incredibile confusione in cui versa la classe politica inglese.
La speranza è l’ultima a morire, dice il proverbio. La premier Theresa May ha annunciato che intende chiedere a Westminster un terzo voto sull’accordo di recesso. Potrebbe tenersi mercoledì 20 marzo, alla vigilia del prossimo summit europeo. Il tentativo è di strappare all’ultimo secondo utile il benestare parlamentare per una uscita ordinata del Regno Unito dall’Unione europea a fine mese. Inutile tentativo o scommessa eccellente?
Impossibile rispondervi con certezza, ma lo stesso establishment comunitario si aggrappa a questa possibilità. Nei fatti si spera che i brexiter più riottosi, conservatori e laburisti, si convincano che l’approvazione dell’accordo di recesso sia in fondo la migliore assicurazione di ottenere una Brexit, a fronte dei rischi crescenti di un nuovo referendum o di nuove elezioni, che rimetterebbero in bilico la stessa uscita della Gran Bretagna dall’Unione.
In caso di voto positivo, tutto bene: il breve rinvio chiesto dalla signora May sarà approvato per permettere a Londra di adottare dispositivi applicativi. Nel caso invece di bocciatura, rimarrà sul tavolo l’idea di concedere una proroga, più o meno lunga. Ieri sera i rappresentanti dei Ventisette hanno discusso varie opzioni. Il ministro tedesco degli affari europei Michael Roth si è chiesto su Twitter: “Rinvio: Per fare cosa?”. I Ventisette temono di inquinare l’organizzazione delle elezioni europee del 23-26 maggio con la perdurante presenza britannica nell’Unione (per evitare ciò, l’uscita dovrebbe avvenire entro il 1° luglio).
C’è chi si vuole comunque generoso: «Vogliamo evitare di cadere dal precipizio», ha avvertito ieri da Londra Paschal Donahue, il ministro degli Esteri dell’Irlanda, un Paese esposto come non mai a Brexit. Dello stesso avviso tendenzialmente anche l’Ungheria, sensibile alle posizioni inglesi. Dal canto suo, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha avvertito Londra di essere pronto a concedere una proroga lunga dell’uscita del paese dall’Unione, in cambio di una nuova strategia del Regno Unito. La dichiarazione è tattica, un modo per avvertire i brexiter che in caso di mancata approvazione dell’accordo di recesso, Brexit potrebbe diventare un miraggio.
Più combattiva sull’ipotesi della proroga, forse anche della stessa Germania, appare invece la Francia. Dal Kenya, mercoledì il presidente Emmanuel Macron ha detto di essere a favore di «un rinvio tecnico», e di voler evitare un rinvio al buio. Vicina a Parigi è L’Aja. Dello stesso avviso sono stati nelle ultime ore anche il Lussemburgo, la Spagna, la Danimarca, e anche l’Italia.
Incerti molti altri Paesi. Tra i motivi che giustificherebbero un rinvio lungo – addirittura oltre l’appuntamento elettorale di maggio – c’è chi cita nuove elezioni o un nuovo referendum in Gran Bretagna.