Il divorzio fra la Gran Bretagna e l’Unione europea si avvia a consumarsi nel peggiore dei modi: fra acrimonia, dispetti, rancore. E a farne le spese, come spesso accade, sarà la prole: ossia i cittadini tutti. Ieri Bruxelles ha messo Londra con le spalle al muro: o la prossima settimana il Parlamento di Westminster approverà l’accordo faticosamente negoziato tra le due parti, oppure la Ue non darà via libera alla proroga della Brexit richiesta da Theresa May. Il che vuol dire che lo spettro di un no deal, una uscita catastrofica senza nessun quadro legale, è più reale che mai.
Perché l’ala euroscettica dei conservatori, ieri sera, non dava segni di cedimento: per loro l’accordo è una trappola che terrebbe la Gran Bretagna per sempre nell’orbita europea. E allora, tanto peggio tanto meglio: il 29 marzo, tra otto giorni, Londra sarà automaticamente fuori dall’Unione. E il no deal rappresenta per gli euroscettici la liberazione totale: anche se le conseguenze immediate sull’economia saranno pesanti.
La giornata di ieri è stata ancora una volta ricca di colpi di scena. Nella tarda mattinata la premier Theresa May ha spedito una lettera al presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk: nella missiva si chiedeva di spostare al 30 giugno la data della Brexit, finora prevista per legge il 29 marzo. Il motivo era che il Parlamento di Westminster non è ancora riuscito ad approvare gli accordi di divorzio e si vuole evitare il no deal, ossia una Brexit che sia un salto nel vuoto.
La May non ha potuto chiedere una dilazione più lunga perché si è trovata a fronteggiare la rivolta dei ministri euroscettici all’interno del governo, che hanno minacciato di dimettersi: per loro una proroga della Brexit sine die potrebbe essere l’anticamera della sua cancellazione tout court. Ma la proroga richiesta, di tre mesi, si è scontrata con problemi legali legati alle elezioni europee: il Parlamento della Ue potrebbe essere considerato illegittimo, perché eletto a maggio senza la partecipazione di uno Stato che è tecnicamente ancora membro dell’Unione. Dunque la Ue, per salvaguardarsi, ha chiesto che la Brexit sia completata entro il 23 maggio: a meno che non si voglia andare su un periodo molto più lungo.
Ma uno slittamento di uno o due anni sarebbe un suicidio politico per il partito conservatore, che ha legato il proprio destino al completamento della Brexit. Dunque, a questo punto, lo scenario previsto potrebbe essere quello di un rinvio tecnico di meno di due mesi: a patto che Westminster approvi in tempo l’accordo, ha poi precisato Tusk, altrimenti si finisce immediatamente nel precipizio. Una decisione è attesa oggi al vertice europeo che si tiene a Bruxelles, dove la Francia punterà i piedi e chiederà garanzie precise da parte di Londra.
Ma una Brexit senza accordi aprirebbe scenari caotici: dalle code alle dogane e negli aeroporti fino al razionamento di cibo e medicine in Gran Bretagna. Anche le economie europee, però, avrebbero da perderci: e il contraccolpo sarebbe notevole sull’Italia, che ha un saldo commerciale in forte attivo con Londra. Lunedì il governo di Londra deciderà se attivare il piano Yellowhammer (martello giallo), con le misure di emergenza per garantire gli approvvigionamenti.
Un esito catastrofico che è il fallimento di tutta la classe politica britannica, che non è stata capace di dar seguito in modo ordinato e coerente al mandato popolare ricevuto col referendum del 2016. Theresa May, in un intervento televisivo ieri sera da Downing Street, ha cercato di dare la colpa all’indecisione del Parlamento. Ma è un fallimento che ricade in prima battuta sulla premier: e ieri si rincorrevano come non mai le speculazioni su una sua prossima defenestrazione. I candidati sono già in campo, in primo luogo Boris Johnson, anche se non mancano tanti ambiziosi di belle speranze.