La Gran Bretagna ora è davvero in un vicolo cieco: e nessuno ha in mano la mappa per trovare la via d’uscita.
Ieri è stata un’altra giornata di sorprese al Parlamento di Westminster: e di nuove umiliazioni per Theresa May. Dopo che martedì i deputati avevano di nuovo bocciato l’accordo sulla Brexit negoziato dalla premier con Bruxelles, era previsto che si votasse su una mozione del governo per escludere il no deal, ossia una uscita dalla Ue senza accordi: ma la formulazione del testo era volutamente ambigua, in modo da far intendere che l’unico modo per evitare il temuto scenario era accettare l’accordo voluto dalla May.
Senonché in prima battuta i deputati hanno approvato di un soffio, per soli quattro voti, un’altra mozione che chiede di escludere in ogni caso il no deal, ora e in futuro. Il governo aveva assunto una posizione contraria, ma a sorpresa è stato sconfitto su questo punto: e quel che è peggio, alcuni ministri filo-europei si sono astenuti, sfidando apertamente le indicazioni della premier. La cui autorità, a questo punto, è praticamente dissolta.
Ma ciò significa dunque che l’ipotesi di una Brexit «disordinata» viene esclusa? Tecnicamente no, perché la mozione approvata dai deputati non ha valore legale vincolante, mentre resta in piedi la legge che impone l’uscita dalla Ue il 29 marzo, accordo o non accordo. Un punto che è stato subito sottolineato dagli euroscettici, a partire dal loro capofila Jacob Rees-Mogg: l’opzione automatica resta il no deal.
Ma se questo è vero dal punto di vista legale, sul piano politico le cose sono cambiate. In primo luogo i fautori della Brexit «pura», a qualsiasi costo, si sono rivelati minoranza in Parlamento. E in secondo luogo il governo non potrà non tenere conto della volontà espressa dai deputati.
E tuttavia la prima reazione di Theresa May ha seguito il suo solito copione: e cioè che nulla è cambiato. La conseguenza che la premier ne ha tratto è che oggi il Parlamento voterà per l’estensione della data della Brexit, oltre il 29 marzo. Ma il governo chiederà a Bruxelles una proroga «tecnica» fino al 30 giugno se entro mercoledì prossimo l’accordo sarà stato approvato a un terzo tentativo. Altrimenti, chiederà un’estensione più lunga e Londra dovrà partecipare alle elezioni europee. E a quel punto potrebbe davvero accadere di tutto.
L’ostinazione della premier sembra rasentare la cocciutaggine: ma in realtà è vero che anche l’Europa ha chiarito che quell’accordo è l’unico possibile e che non ce ne sarà un altro. Dunque Bruxelles concederà probabilmente una proroga limitata, ma non per riaprire i negoziati: e soprattutto in modo da evitare che la Gran Bretagna sia ancora dentro l’Unione alla data delle elezioni.
I laburisti, per bocca di Jeremy Corbyn, hanno chiesto che sia ora il Parlamento a prendere in mano il cammino della Brexit e che si esplorino in aula le alternative, da una soft Brexit a un nuovo referendum. Ma la verità è che a Westminster non esiste una maggioranza a favore di nessuna di queste ipotesi. I deputati hanno un bel dire a esprimersi contro il no deal: ma non hanno nessuna contro-proposta sul tappeto.
E allora si torna al punto di partenza. E non è escluso, dopo che ieri Theresa May ha fatto balenare il rischio che la Brexit salti del tutto, «danneggiando la fragile fiducia fra il popolo e il Parlamento», che gli ultrà euroscettici non si spaventino e alla fine si turino il naso: facendo passare al terzo tentativo l’accordo della premier. Sarebbe il miracolo di santa Theresa.