C’è un’altra faccia, non meno pericolosa, dell’aumento dei rendimenti sui nostri titoli di Stato causato dalla politica economica di Lega e Movimento 5 Stelle. Non solo il governo sta gettando al vento miliardi di euro che potrebbero essere destinati ai servizi pubblici o agli investimenti. L’esecutivo sta anche indebolendo le banche italiane, che si stavano riprendendo a fatica dalla recente crisi. Il paradosso è che la «manovra del popolo» potrebbe finire per diventare la “ manovra delle banche”. Il contratto di governo dice infatti che Lega e 5 Stelle sono favorevoli a limitare il coinvolgimento degli investitori privati nei salvataggi bancari. In caso di nuova crisi, dunque, c’è da aspettarsi una pioggia di soldi pubblici verso gli istituti di credito.
L’aumento dei tassi d’interesse sui titoli di Stato italiani ha molteplici conseguenze per le banche. La più diretta riguarda la perdita di valore dei 364 miliardi di euro di obbligazioni governative in pancia ai nostri istituti. Ogni punto percentuale di aumento dello spread tra Btp e Bund tedeschi finisce per erodere il coefficiente patrimoniale di Intesa Sanpaolo e Unicredit di circa un terzo di punto percentuale. Per altre banche come Ubi Banca e Banco Bpm l’impatto è ancora maggiore. Un’eventuale esplosione dello spread potrebbe dunque costringere gli istituti di credito più fragili (si pensi ad esempio a Carige) a nuovi aumenti di capitale. Ove questi non fossero possibili, si aprirebbe il rischio concreto di fallimento.
L’aumento dei rendimenti colpisce anche la liquidità delle banche. Gli istituti di credito si finanziano, oltre che tramite i depositi, sul mercato dei capitali. I rendimenti dei titoli di Stato sono un punto di riferimento per determinare il costo del funding di una banca: più alto è il rischio associato a un Paese, più cara sarà questa liquidità. Un primo pericolo di questo processo è che le banche — anche le più solide — scarichino questi costi sui clienti, aumentando i tassi su prestiti e mutui. Il secondo è che le banche più deboli si possano trovare in una crisi di liquidità, soprattutto se dovesse esserci anche una fuga di depositi verso gli istituti più sani. In questo caso, il pericolo di fallimento potrebbe essere più rapido e difficile da scongiurare.
Tutto ciò non sembra per ora preoccupare il governo. Il vicepremier Luigi Di Maio ha detto la settimana scorsa che non lo spaventa la possibilità che « sette o otto banche » possano avere difficoltà. « Mi sembra che le banche siano già state attenzionate troppo nella passata legislatura. In questa, faremo attenzione alle tasche dei cittadini», ha aggiunto il ministro per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro.
Questa retorica, però, lascia il tempo che trova. È facile prevedere che in caso di problemi bancari il governo aprirebbe subito i cordoni della borsa. La ragione è l’opposizione dell’esecutivo al coinvolgimento di piccoli azionisti e obbligazionisti nei salvataggi bancari. Questa avversione, certificata nel contratto di coalizione, lascia all’esecutivo due sole opzioni: veder fallire una banca, o intervenire con molti soldi pubblici. E siccome la prima opzione è quella politicamente più difficile (oltre che spesso rischiosa dal punto di vista della stabilità finanziaria), in caso di crisi Lega e 5 Stelle passeranno alla storia come i partiti dei soldi alle banche.
Va detto che salvataggi di questo tipo rischiano di scontrarsi con le leggi sugli aiuti di Stato concordate in Europa, e potrebbero provocare un nuovo conflitto fra Roma e Bruxelles. Il paradosso è che a difendere i soldi dei contribuenti italiani ci sarà la Commissione europea. Il governo, invece, si batterà per prendere altri soldi in prestito, facendo salire ancora di più il debito pubblico. Così facendo si darà agli investitori un’ulteriore ragione per non sottoscrivere titoli di Stato italiani. Dopo che il governo italiano avrà affossato le banche, saranno le banche ad affossare il governo.