Per Carlo Bonomi, 51 anni, presidente di Assolombarda e di Synopo, un gruppo di tecnologie biomedicali, l’Europa non è un’opzione. È un dato di fatto. Per questo ha notato subito ciò che la Commissione Ue ha detto dell’Italia giovedì: è il Paese che cresce di meno, l’incertezza politica prolungata può infliggere ulteriori danni all’economia e il risanamento dei conti non avanza.
Presidente, quanto pesa lo stallo politico?
«Faccia caso al dibattito sui dazi minacciati dagli Stati Uniti. L’altro giorno Germania, Francia e persino la Gran Bretagna — che sta uscendo dalla Ue — si mettono d’accordo per rispondere a Trump. L’Italia è assente. Quell’immagine ci dice come in questo momento siamo deboli».
Come se lo spiega?
«Il nostro fatturato in quel Paese vale 40,5 miliardi di euro, questo è un passaggio molto importante per l’Europa e per noi. Abbiamo bisogno di un governo nel pieno delle capacità, perché si possa sedere al tavolo europeo al più presto: avremo vertici importanti sul bilancio dell’Unione, sull’euro, sui rifugiati. Al Nord, a Est, sull’asse franco-tedesco, vari gruppi di Paesi si formano già. Non possiamo permetterci di restare assenti».
Belgio, Spagna, Olanda, la stessa Germania sono andati avanti a lungo bene con governi dimissionari.
«Ma hanno macchine amministrative che funzionano da sole. La nostra fatica, ha bisogno di indirizzi costanti. Per non dire che anche le imprese iniziano ad avvertire il clima d’incertezza. I segnali di rallentamento, leggero, stanno arrivando. Già da prima crescevamo meno della media europea, dunque lo scarto sugli altri Paesi continua ad allargarsi. Con questa legislatura, abbiamo bisogno di una seconda grande stagione di riforme dopo quella scorsa».
Dunque non bisogna rimettere mano a quelle fatte?
«Be’, vanno completate. Per esempio sul Jobs act: la parte sulle politiche attive non ha funzionato e va portata a compimento. Ma dobbiamo partire dal non smontare le riforme che ci sono e funzionano: Industria 4.0 fra tutte, perché è quella che ha dato particolari risultati e ha contribuito a portare l’Italia fra le prime 10 economie al mondo in cui investire, secondo ATKearney».
A Bruxelles si pensa di legare i fondi Ue alle riforme, spostando la contrattazione in azienda. Che ne pensa?
«In Europa c’è l’idea di dare i fondi solo in cambio di determinate misure e per l’Italia potrebbe non essere una passeggiata, dati i nostri ritardi. Quanto alla contrattazione di prossimità, credo che il futuro ci porterà lì. Dovremmo far sì che i costi d’impresa siano allineati alla produttività, e viceversa. A livello nazionale resteranno delle linee guida ma la contrattazione sempre di più verrà spostata sui territori, anche perché oggi nel mondo l’evoluzione è tutta verso i distretti e le grandi aree metropolitane. Con tre fattori vincenti: ricerca e brevetti, innovazione e capitale umano. Il mondo va in questa direzione, ogni distretto ha proprie specificità. Non credo in una ricetta nazionale unica, bisogna interpretare politiche differenziate sui territori».
Le parti sociali hanno colto questa evoluzione?
«Tutti dobbiamo saper guardare al futuro senza le lenti del passato. È un processo in corso. Dobbiamo saper immaginare ora il mondo del 2030 e cosa ci serve per allora: perché fare interventi solo sull’oggi è come mettere delle toppe. Noi italiani stiamo ancora inseguendo i nostri concorrenti e, se andiamo avanti per pezzetti di riforma, non li raggiungeremo mai. Dobbiamo fare un salto. Se ci limitiamo ad aggiustamenti sull’oggi, saremo sempre indietro».
Lei parla da Milano, che va molto veloce. Non è un motivo di orgoglio?
«Lo è. Ma, vede, l’Italia ha bisogno di Milano quanto Milano ha bisogno dell’Italia. Egoisticamente, qui andiamo bene. Però ho paura dell’effetto elastico. Questa Milano che corre, che è nel mondo, non può continuare a farlo allargando la distanza sul resto dell’Italia. Non possiamo permetterci un Paese a due velocità, o anche Milano finirà per essere tirata indietro. Siamo legati al Paese per la politica, la finanza pubblica, la burocrazia, la capacità di attrarre investimenti. Finora abbiamo retto sull’export e l’internazionalizzazione, ma la domanda interna è ferma da dieci anni. Va fatta ripartire».
Intanto forse dal 1861 l’Italia non era mai stata tanto divisa politicamente fra Nord e Sud.
«È una riflessione che abbiamo fatto: il voto ha disegnato un disagio che non possiamo ignorare. In questo Confindustria può dare un segnale utile al Paese, perché le imprese sono unite: da Aosta alla Sicilia le esigenze sostanzialmente sono le stesse».
Eppure i corpi intermedi prima si facevano sentire di più. Non trova che la loro voce sia poco udibile?
«Per essere sentiti, bisogna che ci sia qualcuno ad ascoltare. Mi pare che negli ultimi mesi si sia parlato di tutto tranne di ciò di cui ha effettivamente bisogno il Paese, a partire dalla priorità del lavoro. Capisco che in questa fase sia difficile per la politica pensare ad altro, ma tutti dovremmo metterci a un tavolo sulle cose da fare».
Con un governo di tregua?
«Decidere chi governa non sta a noi, ma agli italiani con il voto e al capo dello Stato che dà l’incarico. Ma chiunque sia, sarà opportuno discutere da subito come portare fuori il Paese dalle secche».
Cosa le preme di più?
«Gli aumenti dell’Iva vanno assolutamente evitati, rischiamo un effetto depressivo sui consumi e l’intera economia. Poi c’è l’attuazione del Piano energetico nazionale, su cui ci giochiamo la politica industriale. Un esempio: la Cina è già avanti tecnologicamente e sta lanciando un piano ambientale. Se passa all’auto elettrica, noi domani potremmo trovarci con interi pezzi della nostra industria di fornitura fuori mercato. Per questo dovremmo anticipare la sfida, lanciare subito un piano su industria e sostenibilità per anticipare i tempi ed essere avanti sugli altri. Non è che possiamo aspettare le prossime elezioni».