«Premetto che gli industriali non hanno nessuna intenzione di considerarsi antagonisti al nuovo governo. Chiediamo solo di essere ascoltati perché vogliamo collaborare. Rappresentiamo un bacino di competenze utili a chi deve prendere le decisioni». Carlo Bonomi è il presidente di Assolombarda, la maggiore organizzazione territoriale della Confindustria e in questa intervista esprime forte preoccupazione per la ridda di voci che accompagnano le scelte del governo. «Non va mai sottovalutato l’impatto sull’economia reale».
D’accordo sul metodo ma in concreto di quali provvedimenti parla?
«Partiamo dalla riforma fiscale che rappresenta un biglietto da visita della nuova compagine. Ci capita di ascoltare enunciazioni diverse dal contratto di governo e in qualche occasione anche divergenti tra loro».
Per la verità anche in casa vostra non si è mai capito bene se siete a favore o contro la flat tax.
«Siamo favorevoli alla riforma fiscale, le etichette contano poco. Il senatore Siri ha sostenuto che finanziarla costerà 60 miliardi e che ci sono le coperture. Si può discutere nel merito? Vogliamo che le risorse affluiscano alle politiche d’impresa, più i tagli fiscali sono vicini alle scelte concrete dell’azienda più quei soldi produrranno crescita e occasioni di lavoro».
Si spieghi meglio.
«Non capisco come da una parte si parli di riduzioni fiscali e dall’altra si vogliano azzerare le cosiddette tax expenditures, agevolazioni decise dai precedenti governi. Penso agli ammortamenti per il 4.0 o al credito di imposta per ricerca e sviluppo. Che senso ha cancellarli? Hanno funzionato. E comunque se ci sono le risorse penso che le priorità siano altre».
Invece di procedere con la flat tax cosa si dovrebbe fare?
«Si è detto da parte dei partiti di governo che circa 15 miliardi avrebbero riguardato minori imposte sull’impresa. Allora perché quei soldi non possono finanziare l’abolizione dell’Irap, una tassa odiosa e con cento complicazioni burocratiche. Sarebbe più coerente con l’obiettivo della crescita. Ma anche per le restanti risorse avremmo da suggerire una via più proficua: mettiamole sul taglio del cuneo fiscale».
Così smonta la flat tax.
«Ripeto: guardiamo alla sostanza, non alle etichette. E dico di più: lascerei il taglio del cuneo fiscale solo alla componente lavoro. Riduciamo la quota che pesa sulle paghe dei dipendenti e così i soldi in più andranno a finanziare la domanda interna».
Gli industriali rinunciano a ridurre il cuneo fiscale sulle imprese?
«Finora l’economia reale ha retto grazie all’export ma se non riparte il mercato interno non andiamo da nessuna parte. Perciò mettiamo più soldi in busta paga. Le cose che le ho detto hanno una coerenza, non vogliamo riforme che si perdano nell’aria ma scelte che arrivino subito a dare forza all’economia reale».
Sta dicendo che il governo non ha sufficienti legami con l’economia reale?
«Non la seguo su questa strada, non cerco polemiche mediatiche, preferisco i contenuti. Prenda il lavoro: i posti aggiuntivi non si creano per decreto e le aziende non delocalizzano per malvagità».
Ce l’ha con il ministro Di Maio?
«Cerco solo di spiegare che un’impresa va all’estero per conquistare un nuovo mercato e servirlo da vicino. Se investe in insediamenti produttivi all’estero il flusso del valore aggiunto verrà comunque dall’Italia e si creerà ricchezza là e qua».
Ammetterà però che ci sono delocalizzazioni che servono per produrre fuori e reimportare in Italia.
«Non difendo questo tipo di delocalizzazioni, va visto caso per caso. E parla un imprenditore che produce tutto in Italia ed esporta l’80% in un settore innovativo come il biomedicale. E anzi do un suggerimento al governo: perché non si batte per il reshoring? Per riportare indietro investimenti che sono andati all’estero e non hanno trovato la qualità che fabbriche e manodopera italiana sanno garantire. Ci sono le condizioni per convincere le aziende a tornare, è già accaduto in molti casi. Così si creano posti di lavoro».
Nel decreto dignità è previsto un irrigidimento del ricorso ai contratti a termine. E’ favorevole o contrario?
«Purtroppo ho l’impressione che stia prevalendo una sorta di ritorno all’antico, il mondo del lavoro si va trasformando e una parola come rigidità dovrebbe essere messa fuori uso. Noi industriali non vogliamo la precarietà e combatterla vuol dire far funzionare le politiche attive del lavoro, rendere fluida la transizione da un posto all’altro e accrescere le competenze».
Ma il jobs act ha funzionato? Va cambiato?
«Ha avuto risvolti positivi, è migliorabile e attuerei ciò che è rimasto scritto sulla carta. Come le politiche attive in un modello di collaborazione con le agenzie private del lavoro».
Ma è a favore del prolungamento degli incentivi ad assumere?
«Un imprenditore non assume per gli incentivi, lo fa se ha bisogno. Se trova le professionalità giuste non se le lascia sfuggire».
Il ministro Di Maio punta molto sui Centri per l’impiego e vuole finanziarne il rilancio con 2 miliardi.
«Non è la strada giusta, li buttiamo».
Chiudo con l’Ilva. L’incertezza continua.
«C’è un player internazionale che vuole investire 4,2 miliardi su Taranto e noi lo mandiamo via? Significa che le acciaierie di trasformazione di Brescia, Milano e del Nord dovranno andare a rifornirsi altrove. Vogliamo che gli italiani comprino acciaio cinese? Sarebbe una follia».