«A noi imprenditori non interessa fare l’opposizione al governo. Non è questo il nostro compito anche se la debolezza dell’opposizione politica è un problema per la nostra democrazia. Il mondo della produzione sa che non può più stare zitto. Lanciamo un allarme: senza crescita rischiamo di finire dentro un’altra recessione».Vincenzo Boccia, 54 anni, salernitano, piccolo industriale nel settore tipografico, è da due anni presidente della Confindustria. Insieme ai leader di altre undici associazioni imprenditoriali (dai commercianti agli artigiani fino alle cooperative) si riunirà oggi a Torino per dire sì alla Tav, sì alle infrastrutture, sì alla crescita. Lo strappo delle imprese contro il governo gialloverde. Almeno così appare.
Boccia, perché l’iniziativa di Torino?
«Perché è finito il tempo degli alibi, quello del capitalismo di relazione, dei poteri forti. Quel mondo non c’è più e siamo noi industriali i primi a saperlo. Qui sono in campo tutti i protagonisti della produzione, è il popolo dei produttori che manda un segnale. Dodici associazioni imprenditoriali insieme per dire sì alla Tav, alle infrastrutture, alla crescita. Protagonisti dell’industria, del commercio, dell’artigianato, dell’agricoltura, della cooperazione che non si rassegnano all’immobilismo. C’è da riflettere su, non crede? A me pare un bel segnale. Questa è una svolta».
Nasce il “partito dei produttori”, orfano della concertazione?
«Fantasie. Non cambiamo il nostro mestiere. E non si pone una questione di metodo o di strumenti come la concertazione ma di merito delle scelte e ancor più degli effetti di queste scelte».
Ecco, appunto: le scelte del governo. Pensa che la gelata dell’economia con il Pil sceso nell’ultimo trimestre sia colpa del governo?
«Il governo sta trascurando il motore della crescita. Non si può tener conto delle sole promesse elettorali inserite nel contratto e ignorare le ragioni della crescita economica. Non si può pensare di chiudere i cantieri mentre l’economia soffre».
Dunque la discesa del Pil dipende dal governo?
«È evidente a tutti che il rallentamento dell’economia globale, insieme alla frenata della Germania (a cui il nostro sistema produttivo è molto connesso) e agli ultimi dati italiani sul Pil accelerano le nostre criticità. Per di più è in campo una manovra di bilancio prociclica mentre l’economia si ferma. Una manovra tutta spostata sulla spesa corrente.
Questo è un errore. Perché il problema non è tanto sforare i vincoli dei patti europei, quanto sforarli senza mettere in campo gli strumenti per dare una spinta alla crescita».
In ogni caso è prevista una riduzione dell’imposta sulle imprese.
«Sì, ma a fronte di una serie di interventi di segno opposto, tant’è che il carico fiscale sulle imprese, banche comprese, è appesantito di circa sei miliardi».
C’è anche la caduta degli investimenti, però. Perché le imprese non investono?
«In primo luogo per l’incertezza che induce a rinviare le scelte. E sarebbe davvero grave se il governo dovesse realmente ridimensionare strumenti che hanno avuto impatti positivi come Industria 4.0 o il credito di imposta per la ricerca e quello per gli investimenti al Sud. Se si vogliono incoraggiare gli investimenti privati bisognerebbe avere l’accortezza di confermare quello che ha mostrato di funzionare. Avendo chiara la visione del Paese, il suo futuro industriale. Bisogna scegliere su quale tipologia di industria puntare».
Ma tutto questo dipende in buona parte dagli imprenditori. Non potete dare la responsabilità solo al contesto politico. Il ritardo italiano è anche un ritardo delle imprese ad adeguarsi ai cambiamenti tecnologici.
«In Italia abbiamo un 20 per cento di imprese che ormai ha raggiunto una condizione di assoluta eccellenza — le aziende che esportano a tengono in vita l’economia nazionale — , un altro 20 per cento in seria difficoltà e il restante 60 per cento in mezzo al guado. A queste ultime dobbiamo dedicare una grande attenzione perché vadano a ingrossare il primo gruppo acquisendo la coscienza che occorre diventare eccellenti in ogni funzione».
E allora cosa direbbe a Salvini e Di Maio se potesse parlargli direttamente?
«Già, perché spesso ci sono ministri ai quali se chiedi di illustrare loro un problema ti rispondono di mandare una mail… A parte questo, diremmo che è necessario un equilibrio tra le ragioni del consenso elettorale e del contratto di governo, che sono di parte, e quelle della crescita che sono di interesse nazionale. Due terzi della manovra vanno a reddito di cittadinanza, pensioni, flat tax per i lavoratori autonomi. E il resto?».
Si è pentito di aver aperto alla Lega di Salvini?
«Non possiamo pentirci di ciò che non abbiamo fatto. Quella che anche lei riporta è una versione scorretta dei fatti, peraltro già chiarita con la pubblicazione sul sito della Confindustria dell’intervento integrale svolto a Vicenza. Lì abbiamo invitato la Lega a essere coerente con se stessa e con quanto fa sui territori in cui governa: noi valutiamo provvedimenti e non governi e i provvedimenti sono di questo governo e non di una parte di esso».
È il Movimento cinquestelle il nemico delle imprese? Sarebbe meglio un governo di centrodestra?
«Noi siamo equidistanti dai partiti ma non dalla politica. Il governo di un Paese, come l’economia, si misura in base ai risultati che raggiunge. Se il Paese frena, se il reddito diminuisce e aumentano i disoccupati di chi sarà la responsabilità?».