Esattamente un anno fa, avremmo detto di tutto tranne che saremmo entrati nel 2019 così deboli e impauriti dal futuro. C’è voluto il discorso di fine anno del presidente Mattarella per rischiarare un po’ l’orizzonte alla ricerca di quell’«impegno e fiducia» di cui abbiamo bisogno per ripartire. Vincenzo Boccia, a capo di Confindustria da più di due anni e mezzo, ha passato gli ultimi mesi a girare per l’Italia per sentire chi fa impresa.
Presidente, quale sentimento prevale?
«Pessimisti nelle previsioni. Sarà un 2019 difficile. Il rallentamento della economia globale e della Germania, la fine del Quantitative Easing e una manovra economica cosiddetta espansiva ma che in questo scenario sarà prociclica, invece di contrastare la frenata, non possono che generare preoccupazione nel nostro mondo. Dobbiamo evitare che la preoccupazione si trasformi nel peggior male per il Paese e per l’economia del Paese, ossia in ansia».
Spesso il lamento è la caratteristica degli imprenditori…
«Non è questione di lamento, ma di partire dalle criticità per trovare soluzioni e non subire traumi. Lo facciamo ogni giorno nelle nostre imprese per reagire alla concorrenza e concentrarci sulle potenzialità cercando di rimuovere e superare le criticità».
Tutte le dichiarazioni dei ministri dicono che la Finanziaria è fatta per la crescita…
«È una manovra espansiva, la crescita è un’altra cosa. Quello che occorre, adesso che la legge di Bilancio è approvata, è aprire tutti i cantieri pronti a partire. I costruttori dell’Ance hanno calcolato che sono bloccate in Italia ventisette grandi opere al di sopra dei 100 milioni — al Nord, al Centro e al Sud — che se si avviassero darebbero lavoro a 400 mila persone con una ricaduta sull’economia di 86 miliardi. Nel Paese c’è una grande emergenza che si chiama lavoro. Occorre trovare soluzioni, creare occasioni di lavoro. Le analisi di impatto devono partire e puntare al calcolo dei posti di lavoro che attivano. Solo nel settore costruzioni ne abbiamo persi oltre 600 mila dall’inizio della crisi. Il lavoro è la prima delle emergenze».
Il governo pare finalmente essersene reso conto e sta provando a tirar dentro le imprese anche nel reddito di cittadinanza…
«Sono due cose diverse e sarebbe importante distinguerle. Il reddito di cittadinanza dovrebbe aiutare quelle famiglie in fascia reale di povertà, occorre evitare abusi e sincerarsi che non sia un disincentivo al lavoro. Paradossale il fatto che si possa rinunciare a due/tre proposte di lavoro in un Paese in piena emergenza occupazione».
Qual è l’altra?
«È l’attenzione al mondo del lavoro con un taglio netto del cuneo fiscale che tra tasse e contributi incide per oltre il 70%, nonché detassazione e decontribuzione totale dei premi di produzione per i contratti di secondo livello aziendale. Elementi che eleverebbero il netto in busta dei lavoratori cui andrebbe completamente a favore come indicato nel patto della fabbrica sottoscritto con Cgil, Cisl e Uil. Da avviare inoltre un grande piano di inclusione giovani con la decontribuzione e la detassazione totale per le assunzioni a tempo indeterminato. Così si può affrontare l’emergenza lavoro e lo si può fare guardando oltre la Manovra perché molte misure non impattano sul primo anno».
Ma su Industria 4.0 che pure ha generato lavoro non vi siete fatti sentire più di tanto…
«Questo non è vero. Fin dal primo momento abbiamo chiesto il mantenimento, se non il potenziamento, degli strumenti che hanno avuto effetti positivi sull’economia reale. E l’impianto di Industria 4.0 è stato utile per l’intero mondo delle imprese che ha potuto rinnovarsi e trasformarsi tecnologicamente. Indebolire questo impianto lo consideriamo un errore».
Ma lo avete detto a Salvini e Di Maio?
«Sì, lo abbiamo ribadito in occasione dei due incontri con Salvini e Di Maio e alcune correzioni ci sono state rispetto a un primo e maggior depotenziamento che comunque c’è stato».
Ma scommesse Paese come tecnologia e formazione sono finite chissà dove.
«No, bisogna dare atto che alcune iniziative sono state riprese ma è ancora poco se vogliamo restare la seconda manifattura d’Europa. Se non vogliamo portare alla paralisi il sistema industriale dobbiamo immaginare un percorso e strumenti di politica economica che puntino a scelte per una industria ad alto valore aggiunto, ad alta intensità di produttività e investimenti. In tal senso c’è ancora molto da fare e superare l’ostilità verso l’industria del Paese che garantisce oltre 450 miliardi di export su un totale di 550 miliardi».
Ammetterà però che la voce delle imprese si è sentita solo nelle ultime settimane: speravate di mettervi d’accordo?
«Non ci sembra. Il confronto con questo governo è partito in salita. Dall’idea di fare a meno dei corpi intermedi al decreto dignità su cui abbiamo espresso le nostre perplessità e da cui abbiamo ricevuto parole ingenerose da alcuni siti ed esponenti della maggioranza fino a Torino, dove i protagonisti dell’economia che rappresentano 3 milioni di imprese e il 65% del Pil abbiamo lanciato due messaggi chiari: uscire dalla procedura di infrazione dando un mandato politico chiaro al premier, cosa che è accaduta e che riteniamo un punto importante di questo governo, e attenzione alla crescita. Sì alla Tav, sì alle infrastrutture, sì alla crescita. Più chiari di così».
Ma siete stato ricevuti solo quando è partita la competizione Di Maio-Salvini anche sul versante di chi parlava con le imprese…
«È stato però lo stesso Salvini in occasione dell’incontro a ribadire a suo avviso l’importanza del confronto con le associazioni di rappresentanza come ponte di collegamento con la società. Ci è sembrato un cambio di passo importante e deve essere anche chiaro che occorre quanto prima una legge che misuri la rappresentanza perché è evidente che il confronto lo si fa con chi rappresenta e non con chi vuoi tu».
Avete passato anni a chiedere riforme, ora sembra che abbiate smesso e comunque il tema non è nell’agenda e tra le priorità del Paese. Anzi si smontano quelle fatte.
«C’è molta disattenzione su questi aspetti e anche distrazione. In occasione delle nostre assise di febbraio 2018 a Verona, in chiave italiana abbiamo ribadito la necessità di continuare sulla strada delle riforme e siamo andati oltre con le confindustrie francese e tedesca e in questi giorni con tutte le confindustrie europee stiamo lavorando alla questione europea. La nostra tesi parte da un errore che abbiamo vissuto in chiave italiana e europea per evitare che la Ue venga usata come alibi per non affrontare la questione italiana. In Italia a partire dalla manovra economica si sono sottovalutati gli effetti su economia reale, occupazione, crescita, export. In Europa lo stesso, ma partendo da una attenzione ai soli saldi di bilancio. Occorrono politiche delle mission, darsi grandi obiettivi, quindi definire strumenti, politiche e risorse, dare un senso alto alla politica e sognare, immaginare e realizzare un’Europa e un’Italia luoghi ideali per il lavoro, l’occupazione, i giovani, le imprese e con una grande dotazione infrastrutturale transnazionale, europea».
D’accordo le idee, ma la produttività resta ferma, la competitività non aumenta e quel che è peggio non se ne parla più. Perché?
«Perché se vuoi passare da una manovra del popolo a una manovra per il popolo non puoi ignorare la crescita e i fattori e i fondamentali di competitività del Paese. La produttività è una delle sfide fondamentali, la vinci se attivi investimenti pubblici e privati e se utilizzi la leva fiscale a favore dei lavoratori per spingere imprese e sindacati a sottoscrivere accordi di secondo livello aziendale che creino il meccanismo virtuoso di scambio salario/produttività. La Germania anche grazie a questo modello ha incrementato la propria produttività negli ultimi anni di 30 punti in più rispetto a noi».
È innegabile, però, che ci sia nel nostro Paese una divisione Nord e Sud…
«La vera questione che deve stare cuore a tutti noi, a livello Paese, è e deve essere un’unica questione nazionale. Questa logica divisiva non ha alcun senso. Confindustria ha dentro di sé un’idea di società che include e non esclude nell’interesse di tutti e non contro qualcuno. L’autonomia deve diventare un fattore di competitività non a danno di qualcuno. Non dobbiamo creare altri centralismi né altri centri di inefficienza o di sprechi, ma assicurare maggiore efficienza a parità di risorse».
Resta la divisione Nord-Sud evidente…
«Attenzione, vanno evitati errori o strumentalizzazioni, come ad esempio è accaduto con il modello della spesa storica. Ben vengano i costi standard. Occorre che il confronto si apra con tutte le regioni, che si inseriscano delle clausole di supremazia dello Stato su alcuni argomenti sensibili come ad esempio l’energia e le infrastrutture, nonché affrontare la questione temporale che non è mai stata nella sensibilità del Paese. Se ad esempio una regione entro una certa data non riesce ad usare i fondi europei deve intervenire una cabina di regia nazionale per fare in modo che il Paese non li perda».