La crescita del vino italiano non è una bolla. Casomai una bollicina, almeno stando ai numeri del «Wine monitor» di Nomisma che segnala anche quest’anno un andamento positivo degli spumanti. Basti pensare che l’Italia oggi contribuisce per il 23% all’export mondiale degli spumanti, una quota che appena dieci anni ma era meno della metà (circa il 10%).
A trainare l’esplosione delle bollicine è il fenomeno Prosecco letteralmente esploso nell’ultimo quinquennio che ha visto una crescita del 117,5%. «Ma il Prosecco ha fatto bene a tutte le bollicine italiane — ricorda Ruenza Santandrea, la Coordinatrice Vino Alleanza Cooperative Agroalimentari —. Per esempio ha spiegato a mercati maturi come quello degli Usa e del Regno Unito che esistono prodotti eccellenti oltre lo Champagne e che si possono bere ottime bollicine anche senza spendere cifre astronomiche. Il Prosecco, tra l’altro è diventato un brand internazionale riuscendo a unificare in un paese che si divide sempre. Adesso però il successo non deve far perdere la testa ai produttori di Prosecco: nel Regno Unito e negli Usa hanno imparato ad apprezzare un prodotto di qualità, non bisognerà abbassare gli standard e non banalizzare altrimenti rischiamo dei contraccolpi».
Se il mondo anglosassone, con una maggiore cultura del vino, premia le etichette italiane, in Cina la presenza del made in Italy è ancora minimale. «Però — obietta Santandrea — Cina, Russia e Sudest asiatico sono proprio i tre mercati in cui il nostro export cresce più in fretta. Naturalmente è più facile guadagnare terreno dove si hanno quote basse però la tendenza esiste. In quel caso il vero ostacolo e il costo e la complessità di aggredire mercati così lontani: i grandi player vanno con maggiore disinvoltura, le cooperative si consorziano per fare fronte comune. Sono i piccoli privati, anche quelli eccellenti, ad avere ancora delle difficoltà. Dovranno superare presto le divisioni e trovare formule di aggregazioni».
Insieme alle bollicine è tutto il comparto dei bianchi a crescere e convincere: secondo il Wine monitor infatti l’Italia è il leader mondiale dell’export di vini bianchi, battendo francesi, spagnoli e australiani. «A trainare i nostri bianchi contribuisce anche il connubio con l’alta ristorazione — spiega Silvano Brescianini, general manager di Barone Pizzini, storica cantina della Franciacorta —. Dopo molti anni di fatica, la biodiversità dei nostri prodotti sta pagando. I principali mercati mondiali si sono stufati di bere sempre Chardonnay e Sauvignon. La varietà è un vantaggio e nel mondo è cresciuti l’interesse per i territori che stanno dietro a un vino di successo. Lo facciamo anche noi in Franciacorta con una nicchia di successo che ha saputo raccontare un territorio e fare connubio con l’alta ristorazione».
Uno scenario quasi capovolto rispetto a quello di qualche anno fa che vedeva i «produttori dei nuovi mondi» (Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica) come i futuri dominatori del mercato dei bianchi. «È vero la situazione si è girata a nostro vantaggio — concorda Brescianini — ma attenzione perché in Australia stanno piantando vigne intere di Vermentino, esiste già un Sangiovese del New Mexico e un Grignolino della California. I vitigni infatti sono replicabili in tutte le parti del mondo: nessuno può replicare un Brunello o un Barolo ma con i vitigni bisogna stare attenti. Per questo sarebbe meglio valorizzare i nostri territori anche nelle etichette. Sta crescendo la cultura del vino anche nei grandi mercati emergenti e avere un’identità ci distingue. Tra dieci anni la Cina sarà la prima produttrice di vino al mondo ma non dobbiamo temere perché i loro consumatori diventeranno più competenti. Gli Usa, quando sono diventati grandi produttori, hanno incrementato le importazioni di vini italiani».