«Sa cosa è cambiato rispetto a prima?». La voce di Luciano Benetton arriva solida come sempre. Come se fosse quel 1965, anno di fondazione di una delle aziende che nel tempo sono riuscite prima a lanciare e poi a consolidare il marchio Made in Italy. Al punto che in queste ore Benetton è in America, dove ha ricevuto uno dei riconoscimenti più ambiti al mondo: la laurea honoris causa da parte del Fashion Institute of Technology della New York University, a cui hanno assistito 3.800 studenti stipati al Radio City Music Hall. Comprensibile il tono di voce allegro e divertito, ma che si fa subito serio, perché l’imprenditore, definito a suo tempo il «Re del Casual» dalle principali riviste di moda mondiali, è tornato a occuparsi attivamente della sua azienda. Nel 2012 aveva deciso di lasciare per dedicarsi a se stesso e all’altra sua passione: l’arte, l’architettura, il bello. Una scelta non facile, ma come dice «obbligata», per tornare a far brillare quell’azienda dalla quale tutto, dalla famiglia a un certo modo di guardare il Nord-Est e l’Italia intera, era partito.
Allora, cosa è cambiato?
«Fino a qualche mese fa mi occupavo essenzialmente di Imago Mundi, quella mostra di migliaia di quadri contemporanei tutti della stessa dimensione (10-12,5 centimetri, coinvolti circa 150 Paesi e comunità native e più di 25 mila artisti, ndr) che ho collezionato»
Deve essere stato sicuramente più divertente…
«Le dicevo, appunto, che la cosa che è cambiata è che prima ricordavo gli appuntamenti a memoria, ora mi serve un’agenda. Che bello!»
Lo dice ironicamente?
«Ma no. Sono contento. Certo il clima non è quello che avevo lasciato nel 2012. Si è un po’ persa quella caratteristica di avere collaboratori vicini all’azienda, diventati grandi con il gruppo. Siamo più tecnologici ma, sa, per noi che siamo cresciuti avendo l’innovazione nel Dna, non è così strano. Come non lo è essere qui in una città vetrina di arte e cultura. Ma al tempo stesso in una nazione che avevo sempre ammirato per il suo melting pot che ci ha sicuramente ispirati nella nostra missione di colorare il mondo».
Secondo lei, l’hanno premiata più per quello che ha fatto nella moda o nell’industria o nell’arte?
«Mi piace pensare che sia un po’ per tutto. È tutto assieme. Il tempo extraprofessionale e quello lavorativo. È coerente con la mia storia. Il passato serve a creare il futuro, cosa che ogni tanto in Italia si dimentica».
Riferimento alla politica, ai Salvini e Di Maio di oggi?
«Non del tutto. Certo, ogni tanto si ha l’impressione di avere davanti una politica che non vuole fare i conti col passato. Nel bene e nel male. Per questo penso che i 5Stelle e la Lega debbano provare a governare. Per metterli alla prova. Per farli rendere conto che l’Italia non è tutta da buttare come a volte sembra di capire dai loro discorsi. Anche per questo vorrei che il riconoscimento fosse un esempio».
Esempio di cosa?
«Della necessità che ognuno di noi deve ridare indietro qualcosa alla società. Restituire quello che si è avuto. Ci sarà chi è più o meno soddisfatto. Ma soprattutto se hai fatto l’imprenditore e hai avuto successo, devi fare in modo che la società ne abbia beneficio. E allora prendi un edificio abbandonato dal 1950 nel centro di Treviso e ne fai un centro culturale».
Si riferisce alle Carceri…
«Sì, un edificio bellissimo dove abbiamo posto l’intera collezione di Imago Mundi dopo che l’architetto Scarpa lo ha reso un luogo dove le persone stanno bene. O la chiesa di San Teonisto, sconsacrata e abbandonata, sempre una genialata di Scarpa l’ha resa un auditorium con 350 posti che però scompaiono ingoiati dal pavimento quando deve diventare luogo espositivo. È lo stesso concetto di servizio che torneremo ad applicare alla Benetton».
Voi fate moda, però.
«Sì. Ma ci siamo fatti conoscere per la qualità e l’utilità dei nostri prodotti. Che non vanno comprati per il prezzo anche se conveniente — se non li metti e usi è comunque alto — ma per la qualità, per la comodità, perché oltre a piacerti, ti servono. Bisogna stare molto attenti a quello che ti chiede il mercato. Un mercato che sta tornando ai fondamentali».
Ma è il fondamento di ogni azienda…
«Sì, peccato che chi è stato alla guida della Benetton in questi anni lo abbia dimenticato…».
Ha trovato una Benetton diversa?
«Sì, era cambiata. Spaesata. I manager si erano comportati senza cuore. Senza capire la storia di questa azienda che aveva nei collaboratori la sua forza. Ognuno aveva il diritto di dire, di indicare soluzioni».
Non sta dicendo cose leggere..
«Vede, la classe dirigente è importante, deve avere la modestia, mi permetta, l’umiltà di capire dove si trova e non imporre modelli propri, magari anche sbagliati. La squadra è importante. I tempi sono importanti».
E lei che orizzonte si è dato?
«La prima parte del 2018 è andata ormai. Abbiamo iniziato a lavorare e con le collezioni del 2019 si inizierà a vedere qualcosa. Capisco che la competizione sia feroce. Ma non è che tutti gli altri siano dei fenomeni, abbiamo tenuto testa a decine di competitor. Ci sono oggi 5 mila negozi a insegne del gruppo nel mondo con a capo degli imprenditori. Una potenza. Dovremo ascoltare molto chi lavora con noi, il mercato, come abbiamo fatto in passato».
In passato?
«Sì, a un certo punto della nostra storia ci hanno consigliato di diversificare. Ci abbiamo pensato, e poi la famiglia ha deciso. Gilberto è stato bravissimo. Dovevamo internazionalizzarci. Vedete quello che hanno fatto quelli di Edizione che sono stati bravissimi con Autostrade. Io mi sono ritirato, volevo essere libero. Peccato che, dopo qualche anno, mi sono reso conto che un patrimonio stava perdendosi. Sono stato richiamato».
Del resto lei ha creato il mito…
«Io con gli altri. Quando le dico i collaboratori, pensi a Oliviero (Toscani ndr) che è tornato. Sempre molto creativo ma più riflessivo, rivoluzionario ma contemporaneo, obiettivo. Rilanciamo anche su Fabrica che deve essere un luogo dove i giovani di tutte le nazionalità si ritrovano. I numeri sono molto importanti. Se non si è sostenibili nel tempo non si va da nessuna parte. Pensi a quel voto on line sul contratto di programma del governo».
Eh sì, hanno votato qualche centinaia di migliaia di persone sulle proposte di Salvini e Di Maio.
«È dura dover pensare che il contratto di governo di un Paese sia legato a poche centinaia di migliaia di persone. Anche perché così si mette in difficoltà il presidente Mattarella. I numeri sono importanti, ma vanno capiti, messi nella giusta luce, colorati. Detto questo, come le dicevo prima, è giusto che provino».