Lo scontro tra Vivendi e il fondo Elliott per il controllo di Tim ha aperto la strada alla Cdp, un intervento che ancora in tempi non lontani avrebbe provocato dibattiti accesi e dure prese di posizione. Ma da quando gli Usa hanno salvato il loro sistema bancario al costo pubblico di 700 miliardi di dollari, la Gran Bretagna ha statalizzato Royal Bank of Scotland e la Germania è ridiventata padrona di Commerzbank, la globalizzazione non è più un dogma e lo stesso ruolo degli Stati nei settori strategici non è più al bando. Su questo terreno la cronaca politico-finanziaria italiana, ben prima del caso Tim, è stata segnata da problemi assai più che da soluzioni. Il caso Ilva, l’annosa vicenda Alitalia, la cessione di Italo, l’operazione Stx-Fincantieri sono solo alcuni esempi di questioni che comunemente vengono definite strategiche.
E qui arriviamo al caso Generali. Il banchiere Enrico Cuccia è stato forse l’ultimo esponente dell’establishment italiano a potersi consentire una posizione come la seguente: «L’Italia può permettersi tutto, ma non di perdere Generali». Quello del fondatore di Mediobanca sembrava nei suoi ultimi anni un punto di vista datato: figlio di un’Italia superata. Eppure, non sono passati vent’anni dalla sua morte, che il warning di Cuccia torna d’attualità. Con asset per oltre 450 miliardi, la compagnia è uno dei rari gioielli dello scacchiere finanziario italiano. A questo si aggiungono altri tre fattori che la rendono unica. Il primo è che le Generali sono uno dei pochi grandi gruppi italiani che vanta un forte sviluppo internazionale, essendo presente in Europa ma anche negli altri continenti, Cina inclusa. Il secondo: grazie alla leadership nelle polizze e nell’asset management, la compagnia presidia una parte consistente del risparmio degli italiani e della sua previdenza. Il terzo è che rappresenta un polmone finanziario fondamentale per la nostra economia, specialmente nel campo delle infrastrutture.
Solo questi elementi dovrebbero far capire la centralità e l’importanza del suo controllo. Un anno e mezzo fa, Intesa Sanpaolo cercò di acquisire la compagnia ma tutto naufragò complice qualche errore tattico e una serie di veti e interessi incrociati che bloccarono qualsiasi tentativo. La questione del controllo, però, resta aperta. Come è risaputo il maggiore azionista è Mediobanca che controlla oltre il 13% ma che si è detta pronta a cedere un 3%. Seguono poi gli azionisti privati. Tra questi sta prendendo corpo una specie di diarchia. Da una parte il gruppo Caltagirone, recentemente salito al 4% ma che, secondo fonti bene informate, arriverà al 6%, dall’altra Edizione Holding, finanziaria dei Benetton guidata Marco Patuano, che ha raggiunto il 3% ma che potrebbe crescere fino al 5%, a seconda del quadro governativo che si andrà formando. Entrambi i gruppi sono da tempo presenti sul titolo con mano leggera, come si dice in Borsa, rastrellando piccole quote, seguendo il motto tanto caro all’umanista-editore Aldo Manuzio «festina lente», cioè senza strappi e con la giusta attenzione. In mezzo c’è la Delfin di Leonardo Del Vecchio (3,1%), imprenditore vicino a Unicredit, e il gruppo De Agostini con l’1,7% che però sembra essere venditore. Una serie di movimenti che inevitabilmente sollecitano la fantasia degli operatori.
Ad esempio, è calato il silenzio attorno al progetto Mediobanca,sponsorizzato e sostenuto da UniCredit: la creazione di una sub holding all’interno della quale far confluire l’intera quota detenuta nella compagnia assicurativa. Ovviamente l’obiettivo di Jean Pierre Mustier, ceo della banca di piazza Gae Aulenti, era — e probabilmente resta — quello di consolidare il controllo della compagnia, aprendo il capitale della newco all’ingresso di altri investitori istituzionali. Ma del piano subholding ora non si sa più nulla, anche se Mustier continua a mostrare interesse per le Generali. Altro tema storicamente delicato a Trieste è la governance: tradizionalmente incardinata su un management professionale interno. Un filo rosso spezzato nel 2012, quando il ceo Giovanni Perissinotto è stato sfiduciato e al suo posto è arrivato Mario Greco, che è durato poco più di tre anni per poi andarsene, lasciando spazio all’attuale amministratore Philippe Donnet. Ma non finisce qui. Il direttore generale e cfo Alberto Minali si è dimesso nel gennaio del 2017. E, come se non bastasse, negli ultimi mesi si era parlato dell’addio dell’astro nascente, il direttore finanziario Luigi Lubelli.
Il lavoro di Donnet e del suo braccio destro Frédéric de Courtois sta, comunque, dando risultati. Le Generali hanno archiviato il 2017 con un risultato operativo record e un utile netto di 2,1 miliardi superiore alle stime del mercato. Anche sotto il profilo azionario la filosofia di Donnet è chiara. «Generali deve restare — ama ripetere il ceo — italiana, indipendente e internazionale». Ma i rumor parlano ancora di qualche tensione. La critica più frequente è che si persegua una strategia guidata più dalla politica di bilancio che dallo sviluppo. Le Generali, per esempio, hanno un problema di indebitamento che non viene affrontato perché un aumento di capitale potrebbe mutare gli equilibri tra i soci. Negli ultimi quindici anni infatti gli azionisti non hanno mai messo mano al portafoglio e le poche acquisizioni sono state fatte a debito. Certamente questo non è imputabile a Donnet che presenterà il suo nuovo piano a novembre. Come neanche il fatto che negli anni Novanta e nei primi del nuovo secolo Generali hanno preferito puntare sul ramo vita, che garantisce un rendimento minimo al sottoscrittore ma anche un flusso stabile di utili alla compagnia. Una scelta che, quando è scoppiata la crisi economica, si è rivelata una debolezza: da queste polizze, con i tassi zero, Generali hanno ricavato poco e nulla. Ma il paradosso è che la stessa Mediobanca nutre qualche dubbio sulla redditività della compagnia.
In uno studio che mette a confronto Generali con la francese Axa, l’istituto milanese ha individuato tre ragioni per preferire l’assicurazione transalpina. Il primo è che il rialzo dei tassi potrebbe favorire la compagnia triestina che però è più esposta ai rischi relativi allo spread e al mercato azionario. Dal punto di vista tecnico poi Axa può migliorare il combined ratio mentre è meno probabile che Trieste possa ulteriormente abbassare il suo. Infine, quest’anno la società francese potrebbe lanciare un buyback da 2 miliardi realizzando una crescita doppia dell’utile per azione. Insomma, come dire vendete Generali e comprate Axa. A prima vista sembrerebbe un controsenso visto che Mediobanca è il maggior socio della compagnia triestina. Ma una semplice riflessione fa sospendere il giudizio. Prima di tutto va considerata la storica indipendenza di giudizio del centro studi e degli analisti di piazzetta Cuccia. In secondo luogo in finanza è buona regola non stupirsi mai di nulla. Quello che non è chiaro oggi, lo sarà certamente nel prossimo futuro.