«Di questa vicenda si faccia tesoro per le riflessioni e le indicazioni preziose che ci può offrire in un momento in cui la ripresa economica in atto, che vede il Veneto protagonista, richiede una visione lungimirante a prevenzione delle turbolenze che periodicamente la globalizzazione ci prospetta». È il passaggio conclusivo della audizione di ieri, davanti alla Commissione regionale d’inchiesta sul sistema bancario veneto, di Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia, il quale ha ripercorso i passaggi che hanno portato alla cessione a Banca Intesa di Bpvi e Veneto Banca. Una storia che i posteri potranno giudicare forse non solo come un salvataggio in extremis ma, ha evidenziato, «come un’occasione persa per un vero rilancio del sistema finanziario e creditizio veneto, funzionale sia ai risparmiatori sia all’intera economia». L’intervento del gruppo guidato da Carlo Messina, in sintesi, con il decreto del 25 giugno scorso ha permesso di salvare gli istituti dal fallimento e di mantenere la base occupazionale, «anche se non la conservazione della loro identità – dice Baretta – come avremmo voluto».
Il progetto «Tiepolo» di fusione tra le ex Popolari alla prova dei conti non avrebbe fornito alcuna garanzia e la ricerca di partner privati (Atlante) per la ricapitalizzazione è stata particolarmente difficoltosa. Il peggio è stato scongiurato ma rimane il nodo della riparazione del danno di chi, a causa dell’azzeramento delle azioni, è stato pesantemente colpito. «In questi giorni – ha ribadito Baretta – stiamo lavorando al decreto applicativo del Fondo di ristoro previsto nella legge di Bilancio, che era previsto fosse varato entro la fine di marzo. Con il ministro Padoan abbiamo chiesto agli uffici preposti di accelerare la definizione del testo. Le indicazioni politiche che abbiamo dato sono quelle di un approccio a maglie larghe: l’unico vincolo è rappresentato dall’ordine di effettuazione dei rimborsi sulla base della cronologia delle domande».
Nel frattempo, Intesa ha comunicato di avere riacquistato i titoli obbligazionari che le ex Popolari avevano emesso pochi mesi prima del collasso, per un totale di 9,3 miliardi, rinunciando alle garanzie che lo Stato aveva fornito e quindi alleggerendo i conti pubblici di un ulteriore onere legato al salvataggio.